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È un Paese fragile  l’Italia e, se ce lo dovessimo scordare, ce lo ricordano ogni anno incendi, frane, alluvioni, terremoti e via disastrando. Questa fragilità si deve certamente alla naturale predisposizione della geologicamente giovane Italia, ma i disastri che ne derivano, le vittime e le distruzioni sono imputabili non meno alla umana ignoranza.

Una ignoranza che consente ancora oggi di alimentare quella che amo definire “la politica del rattoppo” piuttosto che quella della prevenzione.

Voglio dire che, abbastanza regolarmente, dopo un evento calamitoso si interviene a metter pezze e a turare falle, a sistemare al meglio i sopravvissuti sempre a disastro avvenuto e senza rimuovere le cause del danno.

Di conseguenza quando si verifica un disastro come quelli che hanno devastato aree del Centro Italia, i primi, a volte immediati, interventi provano a salvare quante più vite umane possibile, a sistemare al meglio i sopravvissuti in strutture di emergenza, tanto che si fa ricorso anche a professionalità quali lo storico dell’emergenza e lo psicologo dell’emergenza.

Ma spesso quel disastro si sarebbe potuto prevedere, se non nei tempi, almeno nei luoghi e nelle modalità  di manifestazione se l’ignoranza del Paese che governano non fosse una caratteristica che gli uomini di governo si tramandano dal Risorgimento in poi. Lo ha detto Italo Calvino e l’ignoranza alla quale si riferisce è quella geografica tanto da indurlo ad auspicare lo studio obbligatorio della Geografia per ministri e sottosegretari.

È anche vero che parlare di ignoranza  in qualche modo limita la gravità delle responsabilità, nel senso che consente di giudicarle colpose anziché dolose. Invece non poche volte c’è anche il dolo e il desiderio di approfittare della situazione.

Il tema del nostro incontro contiene, fra l’altro, una domanda: Può il rischio diventare risorsa? E immagino bene a cosa si riferisce questa domanda e cosa preveda come risposte.

Ma non tutti allo stesso modo intendono questo diventare risorsa.

Penso alle risate al telefono di quegli sciagurati delinquenti che due anni fa, come già in occasione del terremoto dell’Aquila, mettevano in conto i guadagni che ne potevano ricavare partecipando alla ricostruzione. E sì perché, non mi stancherò mai di sottolinearlo, i terremoti, come altri eventi disastrosi, fanno anche aumentare il PIL. Un Prodotto Interno Lordo che calcola l’accumulo di ricchezza prodotto in seguito alle opere di ricostruzione sempre al lordo delle vittime e del dolore morale oltre che fisico provocato dai disastri.

Lo aveva notato anche Voltaire nel suo Poema sulla distruzione di Lisbona  (il tremendo terremoto del 1° novembre 1755). Nella prefazione di questa opera breve, ma ricca di dolenti riflessioni, scriveva, tra l’altro: «Tutto è bene, le eredità dei morti aumenteranno le loro fortune, i muratori guadagneranno soldi con la ricostruzione delle case, gli animali si nutriranno dei cadaveri sepolti tra le macerie: questo è l’effetto necessario di cause necessarie, il vostro male individuale non conta nulla, anzi contribuite al bene generale».

Questo scriveva profeticamente Voltaire più di 250 anni fa. E, in modo ancor più convincente, gli fece eco Jean-Jacques Rousseau nella lettera a Monsieur De Voltaire in risposta e ringraziamento al poemetto che Voltaire gli aveva mandato (si presume) insieme  con un altro scritto Sur la loi naturelle.

Una risposta che ancora oggi, nell’Italia dei terremoti, delle frane, delle valanghe, delle alluvioni e delle possibili eruzioni vulcaniche è una splendida lezione per chi a qualunque livello è chiamato ad amministrare la cosa pubblica e, in essa, la sicurezza dei cittadini.

«Sono sicuro – scrive Rousseau – che anche voi sarete d’accordo sul fatto che non è stata certo la natura ad ammassare insieme in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo meno concentrato e in edifici meno alti e pesanti, il disastro sarebbe stato assai minore o forse non sarebbe accaduto nulla».

Non è stata certo la natura ad ammassare case e gente ai piedi del Vesuvio, tanto per parlare di una cosa che ben conosco. Ragion per cui il rischio vulcanico è dovuto più alla vulnerabilità dell’area che alla probabilità di un’eruzione esplosiva come sarà quella del Vesuvio quando si desterà dal sonno nel quale è sprofondato dal 1944. Appena 74 anni che pure sono bastati per far perdere, agli amministratori e ai loro amministrati, la memoria dell’esistenza di quello che Renato Fucini (Napoli ad occhio nudo) definiva «il grande delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano perché é feroce, che tutti amano perché è bello».

E quando penso alla perdita di memoria con riguardo al Vesuvio mi torna in mente Linus, l’ormai ultracinquantenne capolavoro a fumetti di Charles Monroe Schulz.

Scienza e 2018 02febbraio 04 Ugo Leone 2

Ma così non è. E la storia non insegna nulla di quello che dovrebbe insegnare. Perché se la storia, magistra vitae, insegnasse qualcosa il ripetersi di eventi in periodi “prestabiliti” dalla natura porterebbe a classificare quei fenomeni tra le “calamità” prevedibili. E, in quanto tali, in grado di poter essere preventivamente affrontati per limitare sino ad annullare il rischio di danni e, soprattutto, vittime. Non è così. Non è stato così come attesta la storia dei disastri che annualmente sotto forma di alluvioni, frane e terremoti in modo particolare interessano vaste aree del Paese (la lunga dorsale appenninica soprattutto) e la tiritera delle catastrofi annunciate e che si potevano evitare.

Anche gli amministratori delle aree sismiche d’Italia e di quelle vulcaniche della Campania dovrebbero ben saperlo: anche senza leggere Voltaire e Rousseau. Ma non lo sanno e, colpevolmente ignorandolo, consentono a qualche sciacallo di rallegrarsi per i futuri guadagni.

Ma tornando alle risorse, “buone” ipotizzate dalla domanda alla quale facevo riferimento, la realtà è che contro la naturale fragilità e, quindi, contro la probabilità che un evento potenzialmente calamitoso si manifesti, c’è molto da fare e con successo per prevenirne gli effetti calamitosi.

È  in quel “potenzialmente calamitoso” che sta la risposta la quale consiste nella reale possibilità di evitare o limitare il rischio che un fenomeno naturale diventi una calamità. La risorsa sta nel potenziare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica; informare correttamente sul come prevenire e come comportarsi nel corso di un evento; recuperare alla vita le “vittime superstiti” con la pratica della resilienza.

Tutto a tutela dei cittadini e del bene comune ambiente e territorio e anche per non continuare a ripetere che il disastro era annunciato e si poteva evitare.

Insomma passando dalla politica del rattoppo alla politica della prevenzione esistono di fatto, le condizioni per realizzare al meglio la prevenzione dei danni provocati dal disastro.

Obiettivo certamente realizzabile nelle aree sismiche, meno in quelle idrogeologicamente dissestate e in quelle vulcaniche.

Perciò bisogna anche realisticamente prendere atto che certi disastri possono essere solo attutiti del carico delle loro conseguenze non del tutto eliminabili.

Accade, cioè, che poiché taluni eventi, per quanto prevedibili e prevenibili negli effetti calamitosi, possono manifestarsi con caratteristiche di eccezionale violenza, quando ciò avviene la popolazione ne subisce gravemente le conseguenze. Si presenta in questi casi un problema di ripresa anche psicologica delle persone colpite. È quella che si chiama resilienza un principio al quale si fa ricorso per i materiali e per la loro capacità di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi e ritornare allo stato originario dopo aver subito uno shock. Naturalmente non tutti i materiali hanno questa possibilità e non tutti allo stesso modo. Ma se il “materiale” è quello umano e, quindi, dal campo della fisica si passa a quello delle scienze sociali, la domanda è: che cosa succede alle persone dopo uno shock traumatizzante causato da un disastro naturale o da un attentato terroristico con il loro carico di morti e danni materiali?

Le reazioni sono diverse; la ricostituzione dello stato originario – appunto, la resilienza – avviene in modi e tempi differenti e consiste nella capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne trasformati o addirittura rafforzati. L’eccezionale numero di vittime in eventi come l’attentato alle Torri gemelle, i terremoti in Belice, Friuli, Irpinia, L’Aquila, l’uragano Katrina, gli tsunami nelle Filippine e in Giappone, di fatto sottostima la realtà perché non tiene conto delle “vittime superstiti”, dei sopravvissuti agli eventi disastrosi. Non tiene conto, cioè, di quanti per anni potranno avere negli occhi e nella mente l’aereo che trapassa le torri; la scossa che scuote le abitazioni e quanto c’è dentro; il vento che solleva auto e case; il mare che travolge tutto quanto trova lungo la sua strada.

Insomma si tratta di tutelare i parenti delle vittime e i superstiti delle sciagure verificatesi proponendosi di non far perdere la memoria delle vittime, ed essere un punto di riferimento per i sopravvissuti e uno stimolo per le istituzioni. È un obiettivo importante, ma se il recupero della memoria è fondamentale per evitare che si ripetano certe sciagure, per i sopravvissuti vi sono anche altre problematiche legate al modo in cui si supera quell’esperienza. È, appunto, quella che si chiama “capacità di resilienza”, che consente di reagire di fronte alle situazioni di sofferenza. D’altra parte non va trascurato che la fine di una situazione dolorosa non coincide con la fine delle sofferenze e delle preoccupazioni, ma talora segna proprio il momento del loro inizio. Di più, ciascuno può imparare dalle persone che sono state colpite e che, con il loro esempio, possono indicare se e come è possibile risanare le ferite subite. L’approccio e l’approfondimento del discorso sulla resilienza è di ordine squisitamente socio-psicologico e riguarda il comportamento degli esseri umani come risposta a una sofferenza scatenata da un evento doloroso. Ma non è solo l’essere umano a trovarsi di fronte a questo problema in seguito a un evento traumatizzante: lo sono anche l’economia, la società nel suo complesso o una più piccola comunità, lo è la politica internazionale o locale. Possono esserlo anche, e lo sono specialmente a valle di un evento calamitoso, l’ambiente e il territorio.

Né è solo questo. Bisogna anche prendere atto che per quanta attenzione e opere si possano prestare per prevenire disastri e, soprattutto, per evitarne le vittime, le aree coinvolte ne usciranno comunque modificate nelle loro originarie condizioni (dopo gli uragani, dopo le eruzioni in modo particolari), e per queste situazioni non c’è resilienza, ma il necessario adattamento ad una situazione, appunto modificata o in via di cambiamento.

L’adattamento in biologia si riferisce alla facoltà degli organismi viventi di mutare i propri processi metabolici, fisiologici e comportamentali, consentendo loro di adattarsi alle condizioni dell’ambiente nel quale vivono.

La storia della vita sulla Terra è proprio la storia dell’adattamento all’ambiente. Attraverso una serie di mutazioni e di selezioni, le specie vegetali e animali si sono continuamente adattate all’ambiente in trasformazione, trovando ogni volta le soluzioni giuste per sopravvivere nei climi più diversi. Poi è intervenuta la specie umana che ha ritenuto di modificare questa tendenza cercando di adattare l’ambiente alle sue esigenze come sta facendo da almeno dodicimila anni rischiando l’estinzione. A meno che non riesca ad adattarsi alle mutate situazioni che ha provocato forzando la natura che non ne vuole sapere.

Quello dei mutamenti climatici sempre più evidentemente provocati da comportanti umani – checché ne dicano i “negazionisti” – è l’esempio più calzante. Il mutamento climatico non è solo causa del temuto aumento delle temperature  con tutto quello che ne consegue dallo scioglimento dei ghiacciai nelle calotte polari all’innalzamento del livello degli oceani, ma è anche l’incremento per numero e intensità di quelli che vengono definiti eventi estremi.

Già da anni se ne registra la presenza su tutta la Terra, e l’Italia non ne è esente, per cui a dicembre del 2015 195 Paesi hanno firmato a Parigi un accordo col quale si propongono di bloccare l’aumento delle temperature medie del pianeta a 2 gradi centigradi, meglio ancora se a 1,5.

Non entro nel merito dei contenuti di questo accordo, calcolo solo che da oggi 2018 al 2100 passano 82 anni. Che cosa succederà in questo lungo periodo? E dopo?

Certamente non c’è da immaginare un automatismo tra la riduzione della emissione di gas serra in atmosfera e il blocco degli eventi provocati dal mutamento del clima già in atto da tempo. Né è immaginabile che una volta raggiunto l’obiettivo tutto tornerà ad essere com’era cinquant’anni fa.

Si sarà evitato che tutto peggiori; si saranno ottenuti cieli più limpidi e si sarà salvato qualche arcipelago dalla sommersione… ma non si potrà certo intervenire sull’irreversibile accumulo di CO2 in atmosfera.

Insomma gli abitanti della Terra si avviano a vivere su un pianeta diverso e questa diversità richiede un adattamento per vivere nel migliore dei modi possibile, nel migliore dei mondi possibile.

Anche questo sarà possibile tanto più e tanto meglio con la partecipazione e collaborazione di una popolazione correttamente informata. Che, pur in presenza di dati scientifici di inoppugnabile certezza, devono fare i conti con quelli che si definiscono “negazionisti”.

Per cui, infine, da aggiungere che spesso alla informazione, comunque fatta, si sostituisce, più o meno subdolamente, la disinformazione. Uno studio del sociologo Steven Brechin dell’università dell’Illinois pubblicato su International Journal of Sociology and Social Policy a settembre del 2003[1], valutava i livelli di informazione dei popoli della Terra sui problemi ambientali. Ne risultava un omogeneo livello di informazione – molto basso – dei cittadini dei paesi ricchi, poveri e in via di sviluppo. Per cui Brechin commenta: «purtroppo dobbiamo riconoscere che quasi tutti gli abitanti del pianeta sono ignoranti allo stesso modo sulle cause dei mutamenti climatici globali. I cittadini dei paesi più poveri hanno magari una buona scusa, ma qual è la nostra?».

Ed è proprio così. Tanto che appare abbastanza evidente che la sensibilità “colta” verso questi problemi é stata spiazzata dalla rapidità con la quale l’opinione pubblica é passata dalla considerazione della catastrofe come “linguaggio di Dio” a quella dell’evento “annunciato” che in quanto tale “si poteva evitare” e, quindi, al concetto del “piove, governo ladro”. È stata spiazzata perché questa consapevolezza delle classi popolari ha messo a nudo le ignoranze, le inadempienze, le colpe degli amministratori della cosa pubblica.

E pare proprio, come scrive Augusto Placanica che «per certi contesti culturali, le conquiste della geodinamica siano state del tutto vane».

Orvieto Scienza 2018 – Fragile Italia

 

Note

[1] “La disinformazione sui temi ambientali”, Le scienze on line, 09/09/2003.


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