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«Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare ad esistere», così ha detto Attilio Fontana, candidato leghista della coalizione di centro destra alla presidenza della regione Lombardia, durante un’intervista radiofonica in cui auspicava un cambiamento della politica sull’immigrazione. Il giorno dopo ha aggiunto: «ammetto di aver usato un'espressione inopportuna. Dovrebbero cambiare però la Costituzione, perché si parla di razze».  Vittorio Feltri, direttore editoriale di Libero, ha poi commentato con logica ferrea in un tweet: «Se non esistono le razze come possono esistere i razzisti? Fontana ha ragione».

In questo clima pre-elettorale si torna dunque a parlare di “razza”. E lo si fa nel peggior modo possibile, ovvero usando il termine per un discorso francamente razzista in cui si parla di una razza bianca minacciata da razze che bianche non sono. Il resoconto di queste misere affermazioni fa però riflettere. Se ci si appella al fatto che nella Costituzione si parla di razze per poter fare un discorso di difesa della razza, forse allora quella parola - “razza” -  nella Costituzione sarebbe meglio depennarla.

In realtà di questa ipotesi si discute da qualche anno: nel 2014 due antropologi, Gianfranco Biondi e Olga Rickards, rivolgono un appello al Presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera e Senato per rimuovere la parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione. L’idea viene rilanciata dall’Istituto italiano di antropologia e dall’Associazione nazionale universitaria antropologi culturali, poi viene ripresa più volte da diversi studiosi suscitando un ampio dibattito. Ora esce il volume No razza, sì cittadinanza (Ibis Editore, 228 pp, 12,00 euro) a cura di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi che è il risultato di un corso dell’Open Lab dell’università di Pavia e che chiama a discutere di questo argomento studiosi di diverse discipline: biologi, antropologi, linguisti, giuristi, genetisti, bioeticisti. Una scelta giustissima perché il tema non è solo scientifico, come vedremo.

L’assunto da cui si parte e sul quale tutti gli autori sono d’accordo è che la razza umana non esiste. Lo ha dimostrato la scienza. Non che la razza non esista in assoluto: in alcune specie animali l’esistenza di differenze sostanziali tra gruppi di individui esiste. Possiamo chiamare questi gruppi “razze” o “sottospecie”, ma sta di fatto che ci sono evidenze genetiche del fatto che sono differenti fra loro in modo rilevante. Tuttavia questo non vale per la specie Homo sapiens. Lo studio delle caratteristiche genetiche ha dimostrato infatti che la specie umana è una sola, e al suo interno non ci sono ragioni per individuare gruppi genetici definiti. Le diversità che osserviamo tra popolazioni magari geograficamente distanti e che si basa su tratti fisici come il colore della pelle, il colore degli occhi, l’altezza, non hanno la loro base in una differenza genetica. La variabilità genetica in realtà è molto grande tra gli uomini, ma mentre all’interno delle singole popolazioni è elevatissima, lo è molto meno tra i tipi mediani delle diverse popolazioni: in sostanza c’è più differenza genetica tra due italiani  posti all’estremo di un profilo genetico che tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Insomma, la variabilità genetica non permette di dividere in categorie le popolazioni umane. Il fatto è che, come scrive il genetista Guido Barbujani,  la nostra specie è «recente, molto mobile, fertile e promiscua, discendente da un piccolo gruppo iniziale che ritroviamo in Africa meno di 200mila anni fa e da lì nel giro di centomila anni ha colonizzato il Pianeta. Un processo molto rapido, accompagnato da un altrettanto rapido incremento delle dimensioni della popolazione per cui non c’è stato né il tempo né  l’isolamento spaziale perché si sviluppassero delle razze».

Ma se la razza dal punto di vista scientifico non esiste, perché allora conservare la parola nel testo della legge fondamentale del nostro Stato? L’articolo 3 della Costituzione recita infatti: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Quello che è certo è che i costituenti scrivendo questo articolo non impiegarono la parola in senso discriminatorio, ma nel senso esattamente opposto: la razza viene richiamata in chiave di rottura contro il regime fascista che aveva promulgato le Leggi Razziali nel 1938, solo otto anni prima della stesura della Costituzione. Modificare questo punto non produrrebbe l’effetto di farci dimenticare la nostra storia? Oppure – come sostengono i fautori dell’abolizione – cambiare le parole non sarebbe un disconoscimento dei valori che sottintendono, ma al contrario vorrebbe dire dare a quei valori concetti e termini che rispondano meglio ai cambiamenti della società?

Il problema è centrale, ma non è l’unico che va considerato. Il libro mette in evidenza diverse questioni. Per citarne alcune:  è pensabile intervenire sui princìpi della Costituzione o non si tratta invece di assunti immutabili? “Razza” e “razzismo” sono la stessa cosa? Ovvero, abolendo il termine “razza” non rimarrebbe comunque la possibilità di discriminare qualcuno per le sue caratteristiche fisiche o di altro genere? Oppure è vero che il razzismo si legittima sul concetto di razza? E ancora, posto che nelle lingue naturali le modifiche avvengono a partire dall’uso dei parlanti, imporre cambiamenti dall’alto ci garantisce la loro accettazione? E che cosa è accaduto in Francia dove prima che in altri Paesi si è acceso il dibattito sull’eliminazione della parola dall’ordinamento giuridico?

Insomma, i temi sono molti e, come si vede, la scienza entra direttamente solo in una parte di essi. Gli autori che hanno partecipato alla stesura del libro (che ricordiamo in ordine alfabetico: Annoni, Barbujani, Bettinelli, Biondi, Bosticco, Caporale, Destro Bisol, Faloppa, Greco, Gratteri, Monti, Novelli, Pievani, Redi, Rickards, Sacco, Santosuosso, Sineo, Veca) sono riusciti a rendere la complessità di un tema che oggi,in tempi in cui nascono e prosperano vecchi e nuovi razzismi, più che mai richiede l’uso della ragione.


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