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Ormai è assodato, i cambiamenti climatici sono responsabili dei sempre più frequenti eventi di sbiancamento delle barriere coralline. A fare notizia, però, sono sempre loro, i coralli. Quasi mai, invece, si pensa all’altra parte in causa: i pesci.

La realtà, invece, è che gli eventi di sbiancamento colpiscono tantole formazioni di coralli, quanto i loro coloratissimi abitanti. E secondo uno studio appena pubblicato su Global Change Biology da un team internazionale di ricercatori, tali fenomeni possono stravolgere la composizione della comunità ittica in modo permanente, facendo precipitare la biodiversità.

Il team guidato da James Robinson dell’Università di Lancaster ha monitorato 21 barriere coralline nelle isole Seychelles per ventitré anni, dal 1994 al 2017, durante i quali si sono verificati due principali eventi di sbiancamento, uno nel 1998 e uno nel 2016.

In questi anni, dunque, i ricercatori hanno monitorato – e messo a paragone – la varietà e l’abbondanza di specie di pesci e di corallo presenti prima, durante e dopo gli eventi di sbiancamento. Ma i risultati dello studio, come si poteva immaginare, non sono incoraggianti. La biodiversità delle barriere coralline è cambiata, e in modo permanente.

Quello che succede durante gli eventi di sbiancamento è che si spezza una simbiosi perfetta tra i polipi del corallo e le Zooxanthellae, le alghe unicellulari che utilizzano per la fotosintesi. Quando i coralli sono sottoposti a un prolungato stress termico con ondate di calore, espellono l’alga simbionte. A quel punto non solo perdono il colore – da cui il nome sbiancamento – ma anche l’unica fonte di nutrimento. Se l’ondata di calore non si protrae a lungo, la simbiosi può essere ristabilita. Altrimenti i polipi saranno destinati a morire di fame, mentre il loro scheletro calcareo, il corallo, sarà a breve disintegrato. E al suo posto si insedieranno le alghe. Durante i due grossi eventi di sbiancamento del 1998 e del 2016 è successo proprio questo: le alghe hanno occupato lo spazio lasciato libero dai coralli, determinando un cambiamento sostanziale e definitivo nella costituzione della popolazione ittica. Le specie tipiche delle barriere coralline si sono drasticamente ridotte di numero e sono state in gran parte sostituite da specie che si cibano di alghe.

 

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Così, dove prima il corallo abbondava e c’erano grossi pesci predatori, come i dentici e le cernie, o pesci molto piccoli come le castagnole e i pesci farfalla (Chaetodontidae), oggi ci sono per lo più pesci pappagallo (Scaridae) e pesci coniglio (Siganidae) e labridi (Labridae).

Nonostante tra i due sbiancamenti disastrosi siano intercorsi diciotto anni, le popolazioni ittiche non sono riuscite a riprendersi. E la situazione sembra destinata a peggiorare: altri studi hanno dimostrato che tali fenomeni circa ogni dieci anni, a intervalli sempre più ristretti. Come sperare quindi in una “ripresa” della biodiversità ittica se gli eventi di sbiancamento – si prevede – si susseguiranno a un ritmo sempre più serrato a causa del riscaldamento globale?

Il problema, inoltre, sembra essere più serio del previsto. Stando a quanto scritto dagli autori dello studio, anche nelle aree in cui i coralli sono riusciti a guadagnare nuovamente terreno, da soli o aiutati da progetti di conservazione dedicati, la composizione della popolazione ittica non è tornata la stessa di prima. La resilienza di questi ecosistemi viene dunque compromessa seriamente.

Inoltre questi stessi cambiamenti nella composizione della popolazione ittica possono essere riscontrati in altre barriere coralline in tutto il mondo e potrebbero essere descritti come la nuova “normalità” per quelle che hanno già subito – o subiranno – uno sbiancamento dei coralli. Una normalità fatta di popolazioni ittiche meno variegate e abbondanti, con più specie erbivore. Una biodiversità ridotta con cui dovranno fare i conti anche le comunità – umane – che vivono di pesca, sfruttando i servizi ecosistemici offerti da questi delicati ecosistemi.


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