Il 3 ottobre 2016 si è tenuto presso il Politecnico di Milano un convegno dal titolo “Università e ricerca scientifica: missione (im)possibile?”. I partecipanti hanno trattato prevalentemente, ma non esclusivamente, i problemi del finanziamento della ricerca e degli scottanti problemi conseguenti alla corretta assegnazione dei medesimi.
Tuttavia il germe del convegno era costituito dal libro della Prof. Maria Luisa Villa – già ordinaria di Immunologia presso l’Università degli Studi di Milano, Associata di Ricerca all’Istituto di Tecnologie Biomediche del Cnr, socia dell’Accademia della Crusca – dal titolo sornione e accattivante La scienza sa di non sapere. Per questo funziona. (Guerini e Associati 2016)
In dodici concisi capitoli, Villa visita la “cosa” scientifica dalle radici epistemologiche e metodologiche; al formarsi della scienza moderna; ai problemi dell’autorità, della autorevolezza, della certezza, della credibilità della scienza; al piacere di praticarla, fino al problema della lingua nella quale esprimerla, navigando abilmente tra proposte e desideri senza mai affondare nella disputa sull’uso dell’inglese nelle Università italiane. Caratteristica della Villa è la frequentazione paritetica di problemi epistemologici e di problemi di organizzazione della ricerca. Ne sono testimonianza le bibliografie affisse a ogni capitolo, nelle quali Koyré, Feynman, D’Alembert, Marx, Kant, Popper, ovviamente un raffinato testo di Galilei – le “sensate esperienze” e le “necessarie dimostrazioni” sono un Leitmotiv del libro –, perfino un Heisenberg fiancheggiano aggiornati documenti contemporanei, spesso in forma di siti Web.
Centrale e soggiacente a tutto il suo discorso è quanto esposto nelle pagine centrali, appunto, del libro, dalla fine del Capitolo settimo a tutto il Capitolo ottavo. Di che si tratta? Della coniugazione di due polarità: la prima è quella tra «sapere che» e «sapere come» (p. 73) la seconda è quella tra ricerca di base e ricerca applicata. Il sapere comune è un sapere “come”, il sapere scientifico è il sapere “che”, o “perché”. D’altra parte la ricerca applicata è certamente sia scientifica, sia orientata al “come”. Siamo in presenza di un paradosso? La spiegazione è storica e metodologica. Storica perché la ricerca applicata, più precisamente lo sviluppo di procedure e apparecchiature volte a scopi concreti, sviluppo basato sul “come”, ha spesso preceduto la conoscenza scientifica, o di base, del perché quelle procedure e apparecchi “funzionavano”. Metodologica perché le azioni sia di pensiero, sia materiali e sperimentali hanno avuto forme diverse tra l’aggredire il “come” e il trovare il “perché”.
Scrive Villa: «La storia delle vaccinazioni offre un materiale esemplare per comprendere ciò che distingue l’esperimento dalla semplice osservazione. … Il vaiolo delle vacche, o vaiolo vaccino, era ben noto nelle campagne inglesi e i contadini sapevano che esso si poteva trasmettere all’uomo dando una forma di vaiolo benigno, che però rendeva successivamente immuni all’altro vaiolo, il pericoloso vaiolo umano.» (p. 30). Edward Jenner (*1749-†1823) nel 1796 colse l’importanza della cosa dando inizio, senza saperlo, alla immunologia di cui Villa è, tra le altre cose, maestra. Segue una serie di eventi che portano a Pasteur (*1822-†1895), e Koch (*1843-†1910), chiaramente illustrati nel libro, e a molti altri fino ai premi Nobel Metchnikov (*1845-†1916), ai più recenti Macfarlane Burnet (*1899-†1985), alle reti di Niels Jerne (*1911-†1994) (est omen in nomine) e alle moderne, complesse, conoscenze intrise di tecnologia che hanno portato a una maggiore, ma sempre aperta comprensione del meccanismo immunologico e alla sua applicazione.
Non si può parlare di Jenner senza che venga in mente un altro medico, forse all’epoca più influente di lui, Samuel Hahnemann (*1755-†1843) il quale seguendo il suo pensiero che “il simile cura il simile” e senza l’evidenza del sapere comune di Jenner, ma singolarmente negli stessi anni e con una innegabile somiglianza procedurale, dette origine al discusso movimento omeopatico.
Vediamo più da vicino come si realizza il passaggio dal “come” al “perché”. È largamente accettato che la conoscenza del mondo esterno – sulla conoscenza della matematica incombe la sentenza dell’Ateniese sullo arithmos nell’Epinomis platonico – ha origine dalla percezione. Paragono il processo conoscitivo a una tenaglia le cui due ganasce afferrano l’oggetto da due parti: una è l’esperienza percettiva diretta: la terra è piatta, il sole gira nel cielo, ecc. L’altra è un cammino, che può durare secoli perché sia scoperto, e che alla fine termina anch’esso in una percezione diretta, perché non c’è nulla di arcano nella conoscenza scientifica ed anch’essa ultimativamente si fonda sulla percezione sensoriale (degli strumenti!), ma passando attraverso dispositivi, esperimenti, ragionamenti. I risultati di questo secondo braccio della tenaglia sono quasi sempre controintuitivi perché normalmente contrastano con quelli della percezione diretta*.
Mi sia concesso di usare un termine tecnico per questo secondo cammino, considerando che i discorsi originati dal libro di Villa si sono tenuti presso un Politecnico, e chiamarlo un adattamento di impedenza. Come i trasformatori elettrici mantengono l’energia, ma la trasformano secondo le esigenze della produzione e della utilizzazione – caratterizzate appunto dalle loro impedenze –, così gli strumenti scientifici trasformano in maniera appropriata alla sensorialità umana il contenuto conoscitivo della cosa osservata. Spesso questo “trasformatore” comporta un elemento strumentale essenziale.
Il trasformatore essenziale nel passaggio dai contadini inglesi osservati da Jenner ai Pasteur, Koch ed altri è stato il microscopio.
Anche Galilei ha usato un trasformatore: il cannocchiale. E questo era stato sviluppato prima di Galilei. Occhiali erano prodotti fin dal medioevo. Ne Il nome della rosa Guglielmo si procura degli occhiali. Ma l’indagine sul perché dei fenomeni ottici si concretizza dopo occhiali e cannocchiali,
* Esempi significativi di contrasti