Come può un popolo disinformato tutelarsi ed esercitare il proprio legittimo potere in un regime di democrazia?
“Negli Stati Uniti la radio ha impiegato trent’anni per raggiungere sessanta milioni di persone, la televisione ha raggiunto questo livello di diffusione in quindici anni; internet lo ha fatto in soli tre anni dalla nascita del world wide web”. Lo affermava nel 1996 il sociologo Manuel Castells. Da allora sono trascorsi vent’anni e il numero di utenti connessi a internet supera ormai i tre miliardi di persone nel mondo. Secondo Fabiana Zollo, ricercatrice dell’IMT (Institute for Advanced Studies) di Lucca, “si è sempre pensato che il web avrebbe dovuto e potuto tirar fuori le migliori conoscenze, facilitando il progresso e rivoluzionando la società, mettendo insieme tante menti, libere di esprimere le proprie opinioni”.
Globalizzazione, digitalizzazione, internet e social network trasformano la comunicazione in una sempre più massiccia condivisione delle informazioni. Con un inconveniente. L’eccesso di informazioni infatti può disorientare e rendere difficile interpretare i messaggi in maniera corretta, con importanti conseguenze sulle interazioni tra gli individui e tra le comunità. La complessità del comportamento sociale e della comunicazione sono tratti distintivi della specie umana. Da questi prendono forma i nostri sistemi di organizzazione. E i recenti cambiamenti fanno della comunicazione globale un insidioso calderone. Una pentola in ebollizione, lasciata a scaldare indisturbata sul fuoco alimentato dall’avanzamento tecnologico e dalla rapida diffusione dei suoi strumenti. Quali sono le conseguenze di questo fenomeno sull’evoluzione della moderna democrazia? Quali gli effetti sulla comunicazione della scienza?
LA NON COMUNICAZIONE DELLA SCIENZA E LA NON DEMOCRAZIA
Cosa c’entra la comunicazione della scienza con la democrazia? Secondo un dibattito trasmesso dalla BBC, alcuni considerano ancora la scienza intrinsecamente neutrale da un punto di vista politico e morale, e quindi separata dalla democrazia. Come sostiene Andy Stirling, Professore di Politica della Scienza e della Tecnologia dell’Università del Sussex, è giunto il momento di sfatare questo mito: gli investimenti militari nella ricerca e le applicazioni nel settore agricolo ed energetico dimostrano come la scienza sia intimamente legata agli aspetti economici, politici e sociali delle nostre comunità. Per non parlare del campo medico e farmaceutico. A dispetto di quanto si possa pensare, la comunicazione della scienza nei più svariati ambiti assume oggi un ruolo critico nel garantire la difesa della democrazia. In assenza di questa consapevolezza, rischiamo di assistere a un progressivo scollamento nella comunicazione tra diversi settori della società, laddove l’interazione è invece necessaria per affrontare importanti problematiche. Vediamo qualche esempio.
In un articolo pubblicato su Nature, Colin Macilwain, dopo la partecipazione al meeting annuale dell’AAAS (American Association for the Advancement of Science), riferisce: “Il meeting dell’AAAS si è svolto in una sorta di isola che non c’è. La folla di scienziati e politici ha speso tante belle parole, seppure i pilastri della repubblica stiano fragorosamente crollando intorno alle loro teste”. L’elefante nella stanza che non possiamo ignorare, lo definisce Macilwain. “Molti ricercatori di laboratorio lo percepiscono, temo, come se fosse il problema di qualcun altro. Ma non lo è. Se l’Occidente è davvero nella sua fase di declino, its Caligula stage, its Donald Trump stage, allora questo non è argomento esclusivo delle elite politiche ed economiche. Il problema riguarda anche gli ‘esperti’, che seguono a testa bassa queste elite, presi a massaggiare il proprio ego e a difendere i propri interessi”. “Tristemente” prosegue “è questo il ruolo al quale i leader scientifici si stanno riducendo. Nel complesso, sembrano persino felici nell’accettare l’autocrazia della politica e della finanza”. Seppure fatichino a parlarsi, scienza e politica sembrano quindi meno estranee di quanto si riteneva in passato, e non possiamo più permetterci di ignorarne il legame.
Una testimonianza del progressivo distacco comunicativo tra il mondo della scienza e quello delle authority è data dai risultati di uno studio realizzato da un gruppo di linguisti, che ha analizzato i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) destinati ai politici. Relazioni di difficile comprensione, troppo tecniche e dettagliate, secondo gli studiosi, per consentire agli organi decisionali di comprendere al meglio i messaggi degli scienziati e le azioni da intraprendere per affrontare il problema del cambiamento climatico. Nel labirinto di dati, studi e scambi di informazioni, politici e scienziati parlano linguaggi diversi, e questo può costituire un terreno fertile per potenziali incomprensioni e scorrettezze. Viene da chiedersi: è da considerarsi democratico un sistema incapace di trasmettere ai politici le informazioni necessarie per prendere decisioni?
Dal vertice della piramide comunicativa, rappresentato da politici e organizzazioni internazionali come l’IPCC e l’AAAS, il problema si estende quindi alla base, investendo il grande popolo dei non addetti ai lavori. Pensiamo all’educazione scolastica. Oggi disponiamo di una grande quantità di informazioni riguardanti il cambiamento climatico. Eppure su questo argomento, secondo uno studio comparso su Science, molti studenti non ricevono un’adeguata formazione nell’ambiente scolastico, e i docenti trasmettono spesso informazioni scorrette e fuorvianti. La scuola americana dedica al cambiamento climatico da una a due ore di lezione all’anno; il 30% degli insegnanti riconduce la causa a eventi naturali; il 12% non enfatizza il ruolo dell’uomo. Sante le parole della studentessa Nyasia Mercer della STEM school (Science, Technology, Engineering and Mathematics) di New Haven negli Stati Uniti, rispetto al problema dell’inquinamento: “È triste. Molte di queste cose si sarebbero potute prevenire se la comunità avesse saputo come farlo. Molti non sanno come difendersi” afferma la giovane Mercer. I cittadini devono rispondere con consapevolezza ai problemi ambientali, ma il coinvolgimento del pubblico non è sufficiente se non operiamo una corretta comunicazione. Come può un popolo disinformato tutelarsi ed esercitare il proprio legittimo potere in un regime di democrazia? Medesima riflessione potrebbe essere applicata, spostandoci nel campo sanitario, al tema di vaccini. A dimostrare gli effetti della scarsa qualità della comunicazione al pubblico, basti considerare il calo dei bambini vaccinati in Italia in concomitanza dello sfrenato populismo recentemente fiorito sull’argomento. Se a essere coinvolta è la salute dei cittadini, “antidemocratico” parrebbe una definizione calzante per un sistema capace di generare e tollerare un fenomeno di disinformazione con effetti di questa portata.
La crisi della comunicazione è percepita anche all’interno della comunità scientifica stessa. Il settore editoriale, per esempio, accusa da tempo importanti attacchi all’imparzialità dell’approccio scientifico nella valutazione e nella scelta delle pubblicazioni. Il caso più noto è quello delle frodi scientifiche. Ma non solo. “Pubblicare su testate di lusso ha incoraggiato gli scienziati a dedicarsi ai campi di tendenza, e non alle ricerche che meritano davvero attenzione dal punto di vista scientifico” afferma Randy Schekman, Premio Nobel per la Medicina nel 2013. Come riporta Scienza in Rete, quella di Shekman non è una voce isolata. Dal Premio Nobel per la Fisica Peter Higgs all’oncologa Ping Chi all’astrofisico Yingjie Peng, e altri ancora. “Molta gente, come i comitati di sovvenzione e gli amministratori, non valutano la qualità. Viene tenuto in considerazione solo l’impact factor, senza nemmeno leggere il lavoro” ha dichiarato il Professore Rob Brooks dell’Università di Sydney. Le pubblicazioni su riviste prestigiose giocano un ruolo critico in termini di visibilità dello scienziato e di accesso privilegiato a finanziamenti per la ricerca, e la natura di queste variabili risulta ben distante dalla peculiare quanto sacra oggettività dell’approccio scientifico. Come si suol dire, poco democratica.
LE PRIME RISPOSTE ALLA CRISI DELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA
Il filo conduttore potrebbe essere il medesimo: l’abbondanza di scambi e di informazioni a livello globale mette in crisi la gestione stessa della comunicazione. Non lascia tempo alle diverse discipline di entrare in contatto tra loro (vedi politici e scienziati dell’AAAS), di elaborare linguaggi comuni (come per l’IPCC), e nemmeno di sviluppare razionalmente i messaggi più chiari e semplici diretti al pubblico (come nel caso dell’educazione ambientale e sanitaria). La posta in gioco è la garanzia di una comunicazione globale efficiente e corretta quale strumento di una reale democrazia.
Come sostengono i ricercatori, la comunità scientifica deve acquisire una maggior consapevolezza del suo impatto sugli altri settori e discipline umane, e imparare a difendere la propria posizione in rispetto dei principi di oggettività. Un’importante novità per gli scienziati è data dalla recente espansione dell’open access in direzione della libera condivisione del sapere scientifico. Dal capitalismo cognitivo alla democrazia cognitiva, spiegano gli esperti. Ovvero, come definito da Roberto Caso, dalla mercificazione del sapere a una scienza aperta. Ma il tema è spinoso. Alcuni temono una minor accuratezza dei processi di selezione e revisione degli articoli. Inoltre, prevedendo l’open access un costo di pubblicazione, questo sarebbe di ulteriore ostacolo al lavoro dei ricercatori più piccoli in perenne lotta per il recupero dei fondi. Malgrado i timori, come deliberato dal Competitiveness Council europeo, entro il 2020 tutti gli articoli prodotti da progetti di ricerca finanziati da fondi pubblici dovranno essere accessibili gratuitamente.
Dopo la comunicazione “interna”, resta da analizzare quella tra il mondo della scienza e quello della politica. Accrescere il potere della democrazia attraverso una comunicazione ragionata e trasparente dei contenuti scientifici. Questo dovrebbe essere l’obiettivo. Come ha dichiarato Hoesung Lee, economista sudcoreano Presidente dell’IPCC delle Nazioni Unite, “Abbiamo bisogno di continuare a migliorare la comunicazione. I nostri rapporti devono essere comprensibili. A questo scopo, sono un sostenitore dell’idea di introdurre giornalisti, divulgatori scientifici ed esperti grafici nei gruppi di lavoro”.
Per finire, la partecipazione del pubblico costituisce un caposaldo del concetto di democrazia, ma resta troppo spesso un passaggio puramente formale. “Ci piace tanto parlare di “coinvolgere” il pubblico, ma la verità è che molti scienziati desiderano semplicemente “parlare” al pubblico” sostiene Macilwain. Un tipo di comunicazione verticale e a senso unico, dall’alto verso il basso. Ma qualcosa si sta muovendo. Un esempio è dato dalla recente diffusione negli USA della didattica STEM. Le STEM schools promuovono l’educazione scolastica attraverso la partecipazione attiva a progetti di ricerca e la creazione di solide e costanti sinergie della scuola con enti del settore scientifico e tecnologico.
Inoltre, se la causa della crescente confusione nella comunicazione è da ricondursi alla diffusione dei mezzi tecnologici, questi possono essere utilizzati anche a nostro vantaggio. Un possibile approccio è rappresentato dalla diffusione attraverso la rete di messaggi chiari e mirati, da parte degli esperti, in risposta alla diffusione delle bufale. Si veda lo scalpore sollevato su Facebook dalle recenti dichiarazioni del medico Roberto Burioni, con le quali smentisce il falso collegamento tra i casi di meningite e la presenza di migranti africani. Un rimedio assolutamente efficace e rispettabile, quello di utilizzo del noto social network, paragonabile tuttavia all’estinzione di un incendio che si sarebbe potuto evitare. Le potenzialità della comunicazione verticale sono ancor più imponenti, e potrebbero presto rivoluzionare le basi stesse dei meccanismi di diffusione delle informazioni, invertendone persino la direzione. Dal basso verso l’alto. Pensiamo al recente successo dell’applicazione Pokémon Go e alla possibile introduzione di strumenti simili nel campo della scienza partecipata. È ciò che gli scienziati britannici hanno battezzato nel 2002 con il nome di PEST (Public Engagement with Science and Technology), un modello di comunicazione che prevede il coinvolgimento attivo del pubblico nella comunicazione della scienza. Il potenziale contributo dei cittadini nella raccolta di dati all’interno di un progetto di ricerca scientifica è cosa non da poco. È il caso di eBird mobile, un’applicazione che consente a tutti gli appassionati di ornitologia di trasmettere e raccogliere osservazioni degli uccelli a livello mondiale. Iniziative interessanti nel settore sanitario sono quelle promosse da ASSET (Action plan on Science in Society related issues in Epidemics and Total pandemics), progetto europeo quadriennale che si propone di favorire la preparedness e la comunicazione del rischio delle pandemie attraverso campagne informative e attività di citizen consultation.
Ma per garantire l’efficacia di questi mezzi è necessario procedere a un’attenta razionalizzazione del flusso di informazioni. Lo dimostrano, in tema di democrazia e partecipazione del pubblico, i recenti esperimenti di e-democracy per l’aggiornamento degli strumenti di comunicazione tra la società e le istituzioni. Dall’impiego dei social network per la consultazione dei cittadini nell’ambito delle riforme costituzionali, allo sviluppo di sistemi politici di open data e applicazioni mobile open-source per favorire l’ingresso del pubblico nel processo legislativo. Ne sono esempio i progetti sviluppati da Wikitalia, CodeforAmerica e MySociety, l’applicazione DemocracyOS in Argentina e Liquid Feedback, creato dal Partito Pirata tedesco. Tuttavia, la reticenza dei partiti e l’inerzia dei cittadini nell’adozione e utilizzo di questi strumenti, dagli Stati Uniti all’Argentina, dall’Italia alla Germania, sembrano suggerire che entrambe le parti non siano ancora pronte a tanta trasformazione. O meglio, come affermò Zygmunt Bauman, “oggi i vecchi strumenti non funzionano più, ma quelli nuovi non ci sono ancora”.
UNA REAZIONE LUCIDA E INTERESSANTE
A indicare una direzione per la risoluzione di questa crisi sono le parole di Pia Mancini, attivista democratica argentina: “Siamo cittadini del ventunesimo secolo, che fanno del loro meglio per interagire con le istituzioni create per il diciannovesimo secolo, basate sulla tecnologia del quindicesimo secolo”.
Lo sviluppo di nuovi strumenti e tecnologie è indispensabile, ma non basta. Secondo molti è giunto il momento di rinnovare le strutture delle grandi istituzioni a livello internazionale – politiche, scientifiche ed economiche – e le regole dei processi e dei flussi decisionali. Perché in un’era di rinnovamento, il concetto stesso di democrazia non può essere escluso da questa importante trasformazione. Come? Un approccio interessante è quello di osservare i meccanismi e il funzionamento della comunicazione all’interno delle grandi comunità scientifiche alla ricerca di possibili modelli. La sociologia potrebbe quindi venire in nostro soccorso. Per l’IPCC, come ricorda la giornalista Cristiana Pulcinelli su Micron, “qualche tempo fa alcuni sociologi avevano chiesto di poter studiare i processi decisionali interni dell’organismo dell’ONU che nel passato non sono risultati sempre chiarissimi. Tanto da far scoppiare un caso come il cosiddetto Climategate nel 2009”. Nel frattempo, Hoesung Lee afferma “Abbiamo già avviato il processo per permettere ad alcuni scienziati sociali di studiare la nostra organizzazione”. Curiosamente, simile interesse è stato recentemente espresso dalle Nazioni Unite nei confronti del CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire). “Come funziona il CERN?” si sono chieste in un simposio tenutosi nel novembre 2015 a Ginevra, dedicato allo studio di un modello di collaborazione scientifica internazionale per la sua possibile applicazione in settori dedicati alla gestione dei beni pubblici globali. E se la risposta ai nostri problemi potesse venire dal mondo dei fisici? Pietro Greco descrive la prima comunità scientifica, nata nel Seicento, come “un gruppo di persone sparse per l’intera Europa che ha interessi comuni, che ha valori comuni, che si autoriconosce e che stabilisce un sistema di comunicazione pubblica al suo interno”. È così che “le mura che a lungo hanno diviso la cittadella della scienza dal resto della società sono state abbattute”, dando vita a quella che conosciamo come scienza moderna. Considerando che attorno al CERN gravitano collaborazioni costituite da migliaia di ricercatori da tutto il mondo, tenuti insieme da valori e obiettivi comuni, non è da escludersi che questi abbiano qualcosa da insegnare in tema di comunicazione e organizzazione.
L’evoluzione tecnologica consente oggi a circa metà degli abitanti della Terra di accedere a internet e comunicare tra loro. Con poche decine di euro è possibile acquistare uno smartphone ed entrare in contatto in modo rapido e semplice con individui all’altro capo del pianeta. D’altro canto, questo progresso rischia a mano a mano di ridursi a un mero aumento della produzione e della diffusione di informazioni a discapito dell’efficacia e della trasparenza dei messaggi. Se i sociologi dovessero rilevare come causa una pura indolenza organizzativa, forse sarebbe proprio il caso di parlare di democrazia in saldo.
“Our democracy is threatened whenever we take it for granted”
Barack Obama, 10 gennaio 2017
Bibliografia
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