Secondo una tradizione storica che ha visto lunghe e accese discussioni, la meccanica quantistica è la teoria fisica che – diversamente da qualsiasi altra (inclusa la relatività) – sembra mettere in crisi non soltanto un’ampia classe di spiegazioni cui la meccanica e l’elettromagnetismo classici ci avevano abituato, ma anche per certi aspetti le categorie razionali stesse con cui il pensiero scientifico moderno aveva analizzato il mondo fisico fino alle soglie del XX secolo. Il processo di costruzione di una vera e propria concezione quantistica del mondo rappresenta una delle imprese teoriche più impegnative della scienza moderna, un’impresa quanto mai densa di questioni concettuali: basti ricordare che – nel contesto storico, teorico ed epistemologico nel quale la meccanica quantistica si è consolidata – l’ipotesi stessa che un mondo quantistico esistesse rappresentava un’ipotesi non innocua!
Negli anni che hanno visto lo sviluppo del nucleo fondamentale della teoria – dalle prime ipotesi di Planck del 1900 fino alla formulazione matematicamente rigorosa di von Neumann del 1932 – numerosi tra i protagonisti della rivoluzione quantistica hanno contribuito al dibattito sulle implicazioni filosofiche ed epistemologiche della meccanica quantistica, un dibattito ricco di suggestioni e di posizioni diverse. La formulazione standard della teoria che si è poi consolidata negli anni successivi è di fatto l’erede di una collezione eterogenea di idee molto diverse tra loro – nota come “interpretazione di Copenaghen” in omaggio al luogo di insegnamento e di ricerca di Niels Bohr.
Nell’intenso pluralismo teorico di quegli anni, un ruolo fondamentale è svolto dal dialogo scientifico e filosofico tra Niels Bohr e Albert Einstein, un dialogo che ha esercitato un’enorme influenza non soltanto nel dibattito dell’epoca e oltre ma anche nella vita intellettuale degli stessi protagonisti: come racconta lo storico della fisica Max Jammer nel suo libro The Philosophy of Quantum Mechanics (1974), l’ultima figura che Niels Bohr disegnò su una lavagna la sera prima della sua morte, avvenuta il 18 novembre 1962, era uno schizzo di una scatola contenente radiazione, in grado di emettere – attraverso una minuscola fenditura – un solo fotone alla volta. Il disegno si riferiva al celebre esperimento ideale proposto da Einstein al Sesto Congresso Solvay nel 1930. La circostanza testimonia efficacemente il ruolo che il dibattito tra Einstein e Bohr svolse nella vita e nella “filosofia naturale” dei due protagonisti, oltre che nella storia della scienza e dei grandi dibattiti scientifici di ogni tempo.
L’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica e il ruolo di Bohr
Il quadro concettuale e fondazionale di riferimento della meccanica quantistica acquisisce uno statuto teorico ben definito nei primi trent’anni del XX secolo. Nella sua rigorosa sistemazione formale, dovuta in larga misura al grande matematico ungherese, poi naturalizzato americano John (János) von Neumann, lo strumento fondamentale per la descrizione del comportamento di un sistema microfisico è un ente astratto – detto “funzione d’onda” o “funzione di stato” e tradizionalmente indicato con la lettera greca y (psi). Esso descrive lo stato di un sistema microfisico e, formalmente, è un vettore di uno spazio astratto (lo spazio dei possibili stati del sistema), che permette di assegnare a un possibile risultato di una misura sul sistema di una quantità fisica una determinata probabilità. Risulta assolutamente essenziale specificare che tale probabilità risulta assegnata soltanto sotto l’ipotesi che la misura venga effettuata: si tratta, come noto, della cosiddetta “interpretazione statistica della funzione d’onda”, dovuta a Max Born. In altre parole, se denotiamo con Py(A) la probabilità di ottenere un certo risultato per la misura della grandezza A su un sistema dato preparato nello stato y, tale Py(A) – che è un numero compreso tra 0 e 1 – non rappresenta la probabilità che il sistema avesse quel valore per la grandezza A anche prima della misura, ma soltanto la probabilità di trovare quel risultato sotto l’ipotesi di compiere davvero la misura. La differenza non è da poco. L’interpretazione statistica della funzione d’onda codifica formalmente una delle conseguenze più dirompenti della nuova immagine del mondo atomico: il fatto che le proprietà dei sistemi oggetto della teoria sembrano emergere soltanto in occasione di procedure di misura. È questo il senso in cui va intesa l’idea, tuttora largamente discussa, secondo cui il carattere della realtà fisica sembra dipendere – in un qualche senso fondamentale – dalle domande che noi osservatori decidiamo di porre alla natura stessa. E quando non siamo coinvolti in interazioni di misura con i sistemi microfisici, che fine fa l’intuizione secondo cui la “realtà” esiste anche quando non vi conduciamo sopra un esperimento? Di fatto l’interpretazione di Copenaghen trasforma questa domanda in una domanda extra-scientifica (o addirittura in una pseudo-domanda!), cui la fisica non è tenuta a rispondere.
Nello sviluppo di una simile prospettiva un ruolo fondamentale è svolto, come abbiamo ricordato, da Niels Bohr. La caratterizzazione organica dell’epistemologia della fisica di Niels Bohr è un compito complesso, perché la sua posizione non è agevolmente riducibile a tesi di tipo strumentalista: la discussione di alcune tesi bohriane cui faremo riferimento è semplicemente funzionale alla comprensione dei principali motivi di insoddisfazione di Einstein nei confronti della meccanica quantistica come teoria fondamentale, e non pretende certo di delineare una trattazione globale della visione dei fondamenti della fisica sviluppata da Bohr[1]. Secondo molti autorevoli studiosi, Bohr è lontano da posizioni “estremiste”, secondo cui la realtà fisica viene letteralmente “creata” in occasione di esperimenti. Pur condividendo una concezione fondamentalmente realista sull’esistenza della realtà fisica, Bohr si concentra tuttavia sull’esigenza primaria che secondo lui una teoria fisica fondamentale deve soddisfare, cioè quella di fornire un’adeguata descrizione delle nostre esperienze fisiche sotto l’ipotesi che queste descrizioni soddisfino requisiti di oggettività e, soprattutto, di comunicabilità.
“Il punto decisivo è riconoscere che la descrizione dell’apparato sperimentale e le registrazioni delle osservazioni deve essere fornita in un linguaggio chiaro, adeguatamente arricchito dalla terminologia corrente. Questa è una semplice esigenza logica, poiché con la parola “esperimento” possiamo intendere soltanto una procedura relativamente alla quale siamo in grado di comunicare ad altri cosa abbiamo fatto e cosa abbiamo imparato”. (Bohr 1963, p. 3)
L’accento posto da Bohr sull’esigenza comunicativa, tuttavia, comporta un problema fondazionale immediato. Tale accento richiede infatti che il linguaggio della fisica classica conservi un ruolo fondamentale anche dopo l’avvento della nuova fisica, quello di vero e proprio metalinguaggio nei cui termini descrivere una serie di procedure sperimentali. Ma questo ruolo richiede a sua volta che sia possibile tracciare in modo rigoroso e non ambiguo il confine teorico tra il mondo classico – quello nel quale per esempio descriviamo gli apparati di misura come “macrosistemi” – e il mondo quantistico, un compito per il quale nemmeno la fisica quantistica possiede le risorse adeguate.
Come accennato in precedenza, lo stato di un sistema microfisico è rappresentato da un vettore (detto anche “vettore di stato”), appartenente allo spazio astratto dei possibili stati del sistema stesso. Lo spazio degli stati, per la sua natura vettoriale ha una proprietà fondamentale, alla base di alcune delle caratteristiche più rivoluzionarie della teoria: la linearità. Se, in altri termini, y1 e y2 sono due possibili vettori di stato di un sistema S – che rappresentano cioè due possibili stati di S – anche la combinazione lineare di y1 e y2 , data dall’espressione
c1y1 + c2y2
dove c1 e c2 sono due numeri complessi t.c. | c1|2 + | c2 |2 = 1, rappresenta un possibile stato di S. Ciascuno dei due numeri | c1|2 e | c2 |2 è compreso tra 0 e 1 e rappresenta la probabilità che il sistema abbia il risultato di misura associato allo stato rispettivo.
Ora, se da un punto di vista strettamente matematico la linearità è una proprietà molto semplice, le sue implicazioni sono profonde e potenzialmente enigmatiche quando se ne consideri l’interpretazione fisica. Prendiamo infatti l’esempio di un processo di tipo ottico. Sappiamo che una sorgente di luce emette una quantità di radiazioni luminose variabili: in generale, il fascio di luce risulterà non polarizzato, cioè in generale le radiazioni associate alle particelle della sorgente che contribuiscono a generare il fascio non condivideranno un’unica direzione di oscillazione. Se tuttavia indirizziamo tale fascio verso una lente polarizzata, quest’ultima “obbligherà” una parte del fascio ad acquisire una certa polarizzazione: una certa frazione Ftrasm passerà attraverso la lente e un’altra frazione Fassorb ne sarà assorbita. Se controlliamo il fenomeno ponendo dietro la prima lente polarizzata una secondo lente di identica polarizzazione, osserveremo che la totalità della frazione Ftrasm trasmessa dalla prima lente verrà trasmessa anche dalla seconda lente, dal momento che essa – dopo il passaggio attraverso la prima lente – risulta effettivamente polarizzata.
Se noi vogliamo descrivere sommariamente un processo come questo mediante l’apparato dello spazio lineare di stati, otteniamo una situazione di questo tipo. Se ytrasm e yassorb rappresentano rispettivamente lo stato del fascio trasmesso e lo stato del fascio assorbito, lo stato del fascio prima di arrivare alla prima lente è descritto dalla combinazione
c1ytrasm + c2yassorb
dove – e questo è davvero un punto fondamentale – le quantità | c1|2 e | c2 |2 denotano rispettivamente non la probabilità che una certa frazione del fascio fosse effettivamente polarizzato lungo una certa direzione (informazione che noi, semplicemente, non eravamo in grado di determinare), ma piuttosto la probabilità di trovare una certa frazione polarizzata qualora si faccia l’esperimento con le lenti. Lo stato descritto dalla combinazione lineare c1ytrasm + c2yassorb viene definito sovrapposizione dello stato ytrasm e dello stato yassorb e, nell’interpretazione statistica cui abbiamo accennato, esso non può ricevere alcuna interpretazione “realistica”. Esso non denota cioè uno stato di cose, ma soltanto una sorta di potenzialità statistica, dotata di significato sotto l’esclusiva ipotesi che si conduca un preciso esperimento e che si registrino i relativi risultati (di fatto, l’unica cosa che davvero è “oggettiva” nell’interpretazione di Copenaghen)[2].
La posizione di Einstein: mito e realtà
Ma quel era la posizione di Einstein su questo ordine di problemi? Anche se Einstein era un realista, esperienze come quella che abbiamo appena descritto avrebbero anche potuto risultare digeribili per Einstein a condizione di considerare l’aspetto di indeterminazione della realtà prima della misura – e le relative probabilità – come una conseguenza della nostra conoscenza incompleta delle proprietà dei sistemi. Nonostante la retorica secondo cui Einstein aveva per il determinismo un attaccamento quasi religioso, la natura statistica di una teoria non costituiva per lui alcuna difficoltà a condizione di considerare appunto incompleta la teoria stessa (Laudisa 2015). Il fattore che rende davvero indigeribile ad Einstein il quadro complessivo è la tesi che il resoconto delle esperienze dal punto di vista quantistico sia considerato completo, cioè tale da rappresentare un massimo di informazione estraibile dall’esperienza. La completezza si può esprimere come un requisito secondo cui non esiste una descrizione più “fine” di cui quella quantistica sarebbe un’approssimazione, ed è in questo senso che l’idea della completezza entra in conflitto con la visione einsteiniana. Sotto l’ipotesi della completezza, infatti, sono almeno tre le conseguenze cariche di significato per la nostra discussione.
In primo luogo, il carattere probabilistico nella descrizione delle interazioni di misura appare come un fatto non contingente ma intrinseco. In secondo luogo, nel caso dei sistemi microfisici quella che ingenuamente concepiamo come la realtà “là fuori” è di fatto determinata dal tipo di esperimenti che noi soggetti decidiamo di condurre: è, in altre parole, l’idea stessa di realtà fisica indipendente da osservatori a ritrovarsi in gioco nonché, di conseguenza, lo statuto oggettivo di una teoria fisica fondamentale nella sua funzione di descrizione e spiegazione di tale realtà indipendente da osservatori. Infine il fenomeno dell’entanglement, cioè di quell’«intreccio» o «aggrovigliamento» di stati che deriva dall’applicazione del principio di sovrapposizione nel caso di sistemi quantistici composti. In questo caso, infatti, la teoria mostra che sistemi quantistici composti possono essere preparati in stati – detti appunto entangled – tali che anche dopo che l’interazione tra i singoli sottosistemi è cessata, questi conservano una sorta di dipendenza reciproca che risulta inspiegabile con le risorse concettuali della fisica pre-quantistica.
Il quadro entro cui si sviluppa l’analisi critica di Einstein nei confronti di simili conseguenze della formulazione in prospettiva “vincente” della fisica quantistica trova proprio nel dibattito con Bohr un punto di riferimento fondamentale. Dal momento che questo dibattito produce implicazioni filosofiche ed epistemologiche cruciali per il pensiero scientifico di Einstein, le pagine seguenti cercheranno di darne una rappresentazione plausibile, sia pure estremamente sintetica, in grado di rendere giustizia a questioni tuttora degne di essere discusse nell’ambito dei fondamenti della fisica quantistica.
Il dialogo tra Bohr e Einstein
Il dibattito tra Einstein e Bohr ebbe tre momenti fondamentali, costituiti dai due celebri Congressi Solvay dell’ottobre 1927 e dell’ottobre 1930 e dal dialogo sulla natura della realtà fisica ospitato dalla Physical Review nel 1935, incentrato sul notissimo argomento di Einstein, Podolsky e Rosen (in breve, argomento di EPR). Come noto, il documento da cui la ricostruzione di questo dibattito deve giocoforza partire è stato scritto proprio da uno dei contendenti: si tratta del contributo di Bohr al volume Albert Einstein Scienziato Filosofo, curato da P.A. Schilpp per la Library of Living Philosophers (1949) e intitolato “Discussione con Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica” (Bohr 1979).
La rappresentazione delle riserve di Einstein nei confronti della meccanica quantistica, fornita dall’apparente vincitore della contesa, cioè Bohr, è stata ripresa da alcuni tra i più influenti storici e filosofi della fisica, fino a diventare la tesi “ufficiale”. Soltanto in anni più recenti alcuni studiosi hanno sostenuto la necessità di riscrivere – o quantomeno di integrare – la storia dei rapporti tra Einstein e la fisica quantistica. In questa storia, l’importanza del confronto con Bohr resta fuori discussione. Gli argomenti einsteiniani, a sostegno della tesi dell’inadeguatezza della teoria quantistica come teoria fondamentale e definitiva, si sviluppano proprio nella contrapposizione con la versione di Bohr dell’interpretazione di Copenaghen. La versione ufficiale è però ben lontana dal rendere giustizia alle autentiche ragioni che sono alla base del dissenso di Einstein dalla dottrina poi risultata vincente, dal momento che per lungo tempo la maggioranza degli interpreti ha riservato un’attenzione molto maggiore ai resoconti di Bohr che non agli scritti stessi di Einstein.
La versione ufficiale sulla posizione di Einstein nel dibattito con Bohr può essere riportata come segue. La comparsa delle relazioni di indeterminazione di Heisenberg (febbraio 1927) avrebbe indotto Einstein, già scettico sugli aspetti irriducibilmente probabilistici della meccanica quantistica, a concentrarsi sul tentativo di costruire esperimenti mentali in grado di violare le relazioni di indeterminazione. Einstein avrebbe in questo modo perseguito l’obiettivo primario di dimostrare la contraddittorietà della meccanica quantistica. Tale obiettivo sarebbe stato abbandonato dopo la decisiva confutazione a opera di Bohr, formulata durante il Congresso Solvay del 1930. Non essendo riuscito a dimostrare la contraddittorietà della teoria, Einstein si sarebbe allora concentrato sull’obiettivo di dimostrarne l’incompletezza. Una particolare attenzione viene allora posta nel formulare un criterio di realtà che risulti indipendente dalle alterazioni prodotte dal processo di misurazione, proprio quelle alterazioni la cui inevitabilità aveva vanificato gli esperimenti mentali del 1927 e del 1930. Il prodotto di questi sforzi è naturalmente l’articolo scritto con Podolsky e Rosen nel 1935 (quello che contiene la prima formulazione del cosiddetto argomento EPR, sul quale ci soffermeremo più avanti), la replica al quale, scritta poche settimane dopo, avrebbe chiuso la partita in favore di Bohr.
Una formulazione chiara di questa versione si ritrova per esempio nel citato e influente libro del 1974 di Max Jammer The Philosophy of Quantum Mechanics. Soltanto nei primi anni Ottanta del Novecento la versione ufficiale viene messa in discussione, per opera principalmente degli storici e filosofi della scienza Arthur Fine e Don Howard (Fine 1986, Howard 2015). Sulla base di questa revisione si possono trarre alcune conclusioni generali. Le riserve di Einstein nei confronti della meccanica quantistica sono precedenti alla formulazione delle relazioni di indeterminazione di Heisenberg. Esse si concentrano sugli aspetti fortemente non classici che il formalismo della meccanica quantistica attribuisce alle interazioni tra sottosistemi di sistemi fisici composti e che si riassume nel fenomeno, noto come entanglement, che abbiamo introdotto nella sezione precedente. La trattazione quantistica di determinate interazioni introduce una dipendenza tra sottosistemi i quali, in una prospettiva puramente classica, sarebbero stati classificati come separati e indipendenti. La reale alternativa prospettata dagli esperimenti mentali di Einstein è allora l’alternativa tra completezza della descrizione fisica fornita dalla meccanica quantistica e quello che Einstein stesso, in una lettera a Schrödinger ha definito principio di separazione e che in tempi più recenti è stato indicato come principio di località. Consideriamo un sistema di due particelle correlate mediante una legge di conservazione. In base al principio di separazione, una proprietà fisica vale o non vale per una particella del sistema composto indipendentemente da misurazioni o interazioni di qualsiasi tipo relative all’altra particella. La meccanica quantistica non rispetta sempre questo principio. Ma dal momento che nella prospettiva einsteiniana il principio di separazione è fuori discussione, la meccanica quantistica risulta incompleta come conseguenza dell’impossibilità di mettere seriamente in questione il principio di separazione.
Località e oltre: da Albert Einstein a John S. Bell
Dopo aver fornito una rappresentazione (sintetica!) delle ragioni profonde che stavano alla base delle riserve einsteiniane sulla meccanica quantistica come teoria definitiva e completa della sfera microfisica, proviamo a gettare un rapido sguardo alle implicazioni contemporanee di queste discussioni, implicazioni che hanno avuto e continuano ad avere anche delle ricadute strettamente fisiche significative. Naturalmente, i miei saranno soltanto dei cenni a un insieme complesso di studi e ricerche che si collocano a metà tra la fisica e la filosofia della scienza e che richiederebbero ben altro spazio.
Al di là delle controversie sul dibattito Einstein-Bohr, rimane pacifico che nessuno dei due fisici nutriva il minimo dubbio su quella condizione che prima abbiamo indicato con il termine di località: sistemi che risultino tra loro isolati non possono influenzarsi vicendevolmente a distanza in modo istantaneo. Paradossalmente, tuttavia, l’argomento di EPR apre la strada a una delle scoperte più interessanti e insieme spinose della fisica del Novecento: la scoperta che il mondo microfisico in realtà è non locale e che questa condizione di non località è destinata a essere ereditata da qualsiasi futura interpretazione del formalismo della meccanica quantistica. Il merito principale di questa scoperta è di un fisico irlandese, John Stewart Bell, che dopo essersi a lungo occupato di fisica delle particelle, pubblica all’inizio degli anni Sessanta alcune ricerche che lo renderanno una delle figure più importanti (se non la più importante) nel campo dei fondamenti della meccanica quantistica degli ultimi cinquant’anni[3].
I risultati di Bell prendono avvio esattamente da dove aveva concluso Einstein, vale a dire dall’alternativa tra località e completezza. Bell si pone infatti il problema se, assumendo la posizione einsteiniana a favore dell’incompletezza, sia possibile immaginare di completare la teoria quantistica: se l’ipotesi fosse percorribile, essa ci permetterebbe di ottenere in linea di principio una sorta di super-teoria quantistica completa e locale. In realtà, attraverso un celebre teorema noto appunto come teorema di Bell e pubblicato nel 1964, Bell dimostra che ogni teoria che sia in grado di riprodurre le predizioni della meccanica quantistica deve essere non locale: in particolare, nel caso che si assuma l’incompletezza della meccanica quantistica, ogni ipotetico “completamento” della teoria che possa riprodurre le predizioni della meccanica quantistica darà comunque luogo a una teoria non locale[4].
La connessione Einstein-Bell è in effetti una connessione profonda. Bell dimostra da un lato che un possibile cammino immaginato da Einstein è di fatto impercorribile, ma dall’altro condivide molti aspetti fondamentali dell’epistemologia einsteiniana, primi tra tutti il rifiuto di una concezione strumentalista delle teorie fisiche e l’idea che le teorie fisiche che riteniamo fondamentali debbano ricevere una formulazione che non richiede necessariamente l’esistenza di osservatori. Secondo Bell la teoria fisica dovrebbe, in altri termini, prima tentare di descrivere e rendere conto della struttura di un universo fisico indipendente dall’osservazione, e poi spiegare il significato dell’osservazione all’interno della struttura dell’universo. Con uno slogan: è l’osservazione che emerge e acquisisce un significato dentro un mondo che esiste anche senza osservazioni, e non è la realtà che viene creata dall’osservazione.
Bibliografia
Bell J.S., Speakable and Unspeakable in Quantum Mechanics, Cambridge University Press, Cambridge 1987, 20042 (Trad. it. R. Figari e G. Trautteur (a cura di) Dicibile e indicibile in meccanica quantistica, Adelphi, Milano, 2010).
Bohr N., Essays 1958/1962 on Atomic Physics and Human Knowledge, Wiley, New York, 1963.
Bohr N., “Discussione con Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica”, in Einstein A., Autobiografia scientifica (con scritti di Pauli, Born, Heitler, Bohr, Margenau, Reichenbach Gödel), Bollati Boringhieri, Torino, pp. 104-147, 1979.
Faye J., “The Copenhagen Interpretation of Quantum Mechanics”, in Zalta E.N. (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, http://plato.stanford.edu/archives/fall2014/entries/qm-copenhagen/, 2014.
Fine A., The Shaky Game. Einstein Realism and the Quantum Theory, University of Chicago Press, Chicago, 1986 (19962).
Ghirardi G.C., Un’occhiata alle carte di Dio, Il Saggiatore, Milano, 1997.
Howard D., Anche Einstein gioca a dadi. La lunga lotta con la meccanica quantistica, Carocci, Roma, 2015.
Jammer M., The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley, New York, 1974.
Laudisa F., Albert Einstein e l’immagine scientifica del mondo, Carocci, Roma, 2015.
Maudlin T., Quantum Non-Locality and Relativity, Wiley-Blackwell, Oxford, 20113.
Note
[1] Per un inquadramento dell’epistemologia complessiva di Bohr all’interno dell’interpretazione di Copenhagen, si può vedere Faye 2014.
[2] Per una dettagliata analisi delle implicazioni delle proprietà di polarizzazione della luce per le discussioni sui fondamenti della meccanica quantistica, cfr. Ghirardi 1997.
[3] Gli articoli fondazionali di Bell sono inclusi in Bell 20042, un testo che qualsiasi fisico e filosofo della fisica interessato al settore dei fondamenti della meccanica quantistica dovrebbe leggere (e rileggere).
[4] La letteratura sul teorema di Bell e le sue implicazioni è immensa: un eccellente riferimento è in ogni caso Maudlin 20113, pp. 128-136.
* Tratto dalla rivista Scienza & Società n. 25/26 – “Il volo della ragione”