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Il termine “bioetica” è giovane, non ha neppure cinquant’anni. Lo usò per la prima volta Van Rensselaer Potter, un biochimico e oncologo americano che lo inserì addirittura nel titolo del suo libro del 1971: Bioethics: Bridge to the Future. I tempi però erano maturi evidentemente per la definizione di questo nuovo campo di studio perché in quello stesso anno alla Georgetown University di Washington venne fondato il “Joseph and Rose Kennedy Institute for the Study of Human Reproduction and Bioethics”. I Kennedy, come si può facilmente intuire, avevano finanziato l’operazione. Da allora però la bioetica è cambiata molto, passando da un’originaria predominante attenzione alla cura della salute – quasi identificandosi con la deontologia medica – a una riflessione più ampia in cui si intrecciano diverse esigenze e alla quale contribuiscono specialisti che vengono da vari ambiti disciplinari: scienze naturali, medicina, psicologia, antropologia, diritto, teologia, filosofia. Alla modificazione di questo settore di studio ha contribuito ovviamente l’enorme avanzamento delle conoscenze nel campo biomedico avvenute nello stesso arco di tempo.

Parte da qui il libro di Fabrizio Rufo Etica in laboratorio (Donzelli editore, pp. 117, euro 17,00) per poi addentrarsi nel racconto di questi anni straordinari in cui il rapporto tra scienza e società si è fatto più intenso ma anche più complesso. Rufo ha diviso il libro in tre parti ognuna delle quali approfondisce un argomento diverso, ma strettamente intrecciato con gli altri due.

La prima parte si occupa delle relazioni tra bioetica e ricerca scientifica. Tra le tante novità degli ultimi anni, c’è la ridefinizione dei limiti della vita – un concetto che è al centro della riflessione della bioetica, come si evince dal nome stesso di questa disciplina che contiene il termine greco per “vita”: “bios”. Domande come “Che cos’è la vita? Qual è l’origine della vita? Che cos’è la morte?” hanno trovato risposte diverse nel corso dei secoli. La crescente esigenza di chiarezza – grazie alla spinta venuta dallo sviluppo della medicina di rianimazione, della chirurgia dei trapianti, delle tecniche di procreazione assistita, ma anche della genomica e delle biotecnologie – ha permesso di allontanare l’idea che la vita e i suoi momenti topici siano avvolti dal “mistero”. Oggi ci si trova sempre più spesso di fronte a scelte che richiedono confini e limiti precisi: quando staccare la spina? Quando praticare l’interruzione di gravidanza? Quando intervenire sull’embrione? Quando espiantare l’organo? Naturalmente la riflessione etica su questi temi tiene dietro alle nuove frontiere tecnologiche e scientifiche. In particolare è sempre più difficile accettare che sia qualcun altro a decidere rispetto a queste dimensioni così personali. Ecco quindi che emergono nuovi concetti, come quello di autonomia e responsabilità, con cui dobbiamo fare i conti.

La seconda parte del libro parla di scienza, politica e cittadinanza. Anche qui Rufo dà conto di un cambiamento radicale per cui il modello tecnico-politico, ovvero quello che vede il processo decisionale su alcuni settori di frontiera della scienza come incentrato sul rapporto a due tra gli esperti da un lato e i decisori politici dall’altro, non funziona più. Oggi le decisioni per lo sviluppo e l’utilizzo della conoscenza scientifica non possono non essere prese con la partecipazione di altri gruppi sociali. E «il diritto all’accesso, alla comprensione e alla scelta sull’utilizzo o meno dei risultati della ricerca scientifica si configura sempre di più come un ampliamento della sfera dei diritti di cittadinanza» che appartengono indistintamente a ogni essere umano. I cittadini non devono essere più visti solo come i fruitori finali degli avanzamenti scientifici, allora, ma come collaboratori attivi e critici. Il diritto alla cittadinanza scientifica diventa una barriera contro le pulsioni antiscientifiche e antidemocratiche, quelle, per esempio, che si scatenano contro gli OGM e le sperimentazioni animali, e oggi in particolare contro le vaccinazioni. In sostanza, la scienza è uno strumento estremamente potente: «Qualora sia appannaggio di pochi si identifica come un mezzo di coercizione, ma, al contrario, se la scienza diventa appannaggio anche degli ultimi, allora costituisce il più potente strumento di liberazione e di progresso civile».

E veniamo alla terza parte del libro che ha come titolo: Il diritto alla salute tra scienza, autonomia ed equità. Anche qui torna il tema dei diritti, in particolare la salute è stata riconosciuta come diritto fondamentale dell’essere umano. Da quando questo è avvenuto, alla fine della seconda guerra mondiale, molte cose sono cambiate, alcune in bene, altre in male. Ad esempio, il diritto alla salute si è scontrato con l’affermarsi del neoliberismo, e la salute si è trasformata in un enorme mercato. Un mercato che, peraltro, ha ancora un alto potenziale di crescita. Di questo potenziale si sono accorte recentemente le compagnie assicurative che puntano ad occupare gli spazi aperti per nuovi fruttuosi guadagni spingendo nella direzione di quello che viene definito “welfare aziendale”. D’altra parte, con il consenso informato, si è passati al riconoscimento del fatto che il paziente è consapevole e partecipe delle decisioni sulla propria salute. Ovvero che il paziente, per dir così, non è più solo paziente ma anche agente, o come dicevamo prima un collaboratore critico e attivo. Questo ha portato a un nuovo modello secondo il quale la persona deve essere messa nelle condizioni di prendersi cura di se stessa e della propria malattia, soprattutto se cronica. È un modello che oggi viene auspicato da molti, ma per la cui realizzazione (come del resto per il modello partecipativo in generale) molta strada deve essere ancora fatta.

Infine l’equità. Nel 2005 venne creata dall’allora direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Lee Jong-Wook, la Commissione sui determinanti economici della salute, il cui rapporto finale metteva in chiaro il legame tra salute e povertà: «La giustizia sociale è una questione di vita e di morte, dato che determina il modo in cui la gente vive, le conseguenti probabilità di ammalarsi e il rischio di una morte prematura». Nel 2012 l’Onu – a proposito di equità – ha inserito la copertura sanitaria universale tra gli Obiettivi di sviluppo del millennio. Eppure, anche qui di strada ce n’è molta da percorrere. Pensiamo solo al fatto che negli Stati Uniti le donne nere hanno una probabilità di morire per cause correlate alla gravidanza da 3 a 4 volte più alta rispetto alle donne bianche, secondo i dati diffusi dai Centers for Diseases Control e riportati qualche giorno fa dal New York Times. O al fatto che in Italia, i laureati hanno una speranza di vita da 3 a 5 anni (a seconda se sono femmine o maschi) più alta rispetto a chi ha la licenza elementare, secondo lo studio dell’ISTAT Diseguaglianze nella speranza di vita per livello di istruzione. Mentre di equità si sente parlare sempre meno, il libro di Rufo ha il pregio di farci riflettere sui motivi filosofici, economici, ma anche scientifici per cui la parola non va abbandonata.


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