Atlante delle frontiere. Muri, conflitti, migrazioni
Bruno Tertrais e Delphine Papin
Traduzione e postfazione Marco Aime
Geopolitica
Add
2018 (ed. orig. 2016)
Pag. 144 euro 25
Al confine di ogni luogo. Oggi e domani. Da sempre un limite geografico – linea o spazio – riflette le relazioni tra due gruppi umani, uno di qua, uno (almeno uno) di là, noi e gli altri, divisi e vicini. Nel corso della loro storia i gruppi umani geograficamente distribuiti sono divenuti popoli e civiltà, infine (finora) Stati, separati da frontiere. Oggi tutto il mondo umano è diviso per Stati (193). A creare le frontiere terrestri sono state guerre (in più di cento casi), annessioni e secessioni. Soltanto una cinquantina sono gli Stati nati da una secessione (indipendenza) pacifica, divisioni consensuali o relazioni di buon vicinato o arbitrati internazionali. Circa nel 55% dei casi sono state scelte frontiere un poco anche “naturali” (montagne, supporti idrografici o orografici), le altre sono tutte “artificiali”, il 25% come linee dritte, mentre talvolta seguono meridiani o parallele. Più “fluido” è il discorso sulle frontiere marittime. Fra naturali e artificiali non c’è significativa differenza di complessità, arbitrarietà, ingiustizia, contestazioni; comunque all’interno non rimane praticamente mai solo un’etnia e solo un gruppo linguistico (esistono inevitabilmente sempre meticciati genetici e culturali). Nel complesso, le frontiere terrestri esistenti sono 323 su circa 250.000 km, cento in Europa per 37.000 km. Il passaggio non è proibito (anzi, l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dice che andrebbe considerato “libero” per ogni individuo), passare il confine è e deve essere regolamentato da entrambi gli Stati, pure in modo differente, senza obbligatoria reciprocità. I muri servono a impedirlo, trasformano la frontiera in dogana nei pochi interstizi; a seconda delle definizioni e dei metodi di calcolo rappresentano fra il 3% e il 18% delle frontiere; molti altri se ne stanno costruendo. Resta in sospeso il rapporto fra frontiere umane ed ecosistemi (anche) umani: lo stesso inevitabile antropocentrismo ha qualche limite!
Attenzione, ecco un libro “documentario” da sfogliare, leggere, consultare, garantendone una copia alle biblioteche pubbliche! Solo gli ecosistemi umani hanno confini o frontiere (quasi sinonimi). Da un certo momento in poi la nostra specie ha delimitato i luoghi, ha concepito (tracciato) una convenzione mentale, con molte funzioni pratiche e sociali: difesa del territorio, riscossione delle imposte, amministrazione, condizionamento per uscite e entrate, anti-immigrazione. In un bellissimo libro due bravi studiosi francesi, i geopolitologi Bruno Tertrais e Delphine Papin, fanno un meticoloso punto sulle frontiere. Traduzione e prefazione (colta) sono dell’antropologo Marco Aime (Torino, 1956) che ben sottolinea altre efficaci frontiere meno visibili: culturali, religiose, etniche, linguistiche, quasi mai coincidenti con quelle internazionali; e offre spunti e riferimenti per affrontare la domanda cruciale: è il confine a creare la diversità o, al contrario, è quest’ultima a far nascere un confine? Comunque sia (nel tempo e nello spazio), le frontiere sono fatte per essere superate, la storia dell’umanità è una storia di contrabbando. L’atlante è distinto in sei capitoli di argomenti: parte dalle frontiere ereditate (storiche) e invisibili (non fisiche, a esempio quelle culturali e marittime), ragiona su muri e migrazioni, indica casi specifici di sorprendente curiosità (Guantanamo, Cooch Behar, Baerle, Nagorno Karabakh) e di brucianti controversie (Gerusalemme e molto altro), conclude indicando “il roseo futuro delle frontiere”, non un auspicio, piuttosto un dato di fatto. Il bello è la splendida cartografia tematizzata che impreziosisce i sei concisi testi giornalistici, in modo di visualizzare la lettura: 41 tavole o mappe, precise e dettagliate, ciascuna con ulteriori disegni, dati, comparazioni, tabelle, definizioni, per una comprensione aiutata dal grande formato e da un eccelso lavoro grafico. Adeguata selezionata bibliografia.
La lunga notte del detective Waits
Joseph Knox
Traduzione di Alfredo Colitto
Noir
Einaudi
2018 (orig. 2017, Sirens)
Pag. 419 euro 19,50
Manchester. Novembre, ora, un anno e dieci anni prima. Il segretario di Stato per la giustizia David Rossiter, alto e affascinante, sui 45, già avvocato e marito di ereditiera, parlamentare tory, convoca Aidan Waits alla Beetham Tower, deve recuperare la più giovane delle sue due belle figlie, la 17enne Isabelle, capelli biondi (spenti) e occhi azzurri (intelligenti), rimasta invischiata prima con un tentato suicidio poi con il trafficante Zain Carver, nella cui residenza ormai vive da un mese. Waits va subito in uno dei locali cavernosi di Zain e incontra la 22enne “fattorino” Catherine, c’erano state altre scomparse di donne. Waits è un poliziotto (quasi) finito e si è appena infiltrato nell’organizzazione dello spaccio, era stato sorpreso a rubare droga, continua a farsi di anfetamina alla grande. Il libraio Joseph Knobb ha scelto lo pseudonimo Knox per esordire nelle contorsioni notturne delle “sirene” noir con atmosfere hard-boiled (alla Chandler). Inizio faticoso, poi decolla.
Le case del malcontento
Sacha Naspini
Edizioni E/O
2018
Pag. 462 euro 18,50
Entroterra maremmano, Le Case. Lenti decenni contemporanei. È un borgo millenario, piccolo, scavato nella roccia, una ventina di case a destra e sinistra della via di mezzo, tra la Piazza del mercato e la Torre dell’Orologio, una chiesa, un paio di bar, una bottega, la tabaccheria, l’albergo. Una 25ina degli uomini e donne che vi vivono si trovano a raccontare (ciascuno in prima persona) parte di sé e degli altri, solo Adele Centini più volte, nata nel 1941, padre sparito nella campagna di Grecia, radiosa e bellissima, prima illibata fidanzata del vecchio vedovo possidente colonnello Isastia (il sesso si scopre con l’autista), dopo “vedova”. Ma è terra di scosse terremoti, geomorfologici ed emotivi. Una svolta per tutti avviene con il ritorno del bel Samuele Radi, che vi era nato e cresciuto, per poi fuggire. Trame, segreti, disgrazie, disastri, amori, crimini si accavallano e intrecciano in tutte “Le case del malcontento”, nuovo bel romanzo corale di Sacha Naspini (Grosseto, 1976).
Donne che odiano i fiori
Paola Sironi
Giallo
Todaro
2018
Pag. 184 euro 15
Milano. Ottobre-novembre. Alla Mobile della Questura di Milano funziona bene la squadra del reparto Problem solving (o “Desbrujà rugne” che dir si voglia), ideato per dirimere inchieste con problemi di organizzazione “tra” le forze dell’ordine. Il coordinatore è un veterano, l’imponente commissario Elia Mastrosimone, calvo coi baffi neri, centrocampista e cannoniere. La bionda ossigenata sensuale valtellinese Caterina Cederna è la fantasista. Il buon toscano Vilnev Villeneuve Rosaspina con giovani ciuffi castani, da spericolato pilota, è l’ala sinistra. Infine c’è l’ultima arrivata, lei, ispettore Annalisa Lisetta Consolati, milanese purosangue, capelli chiari e fini, terzino destro e protagonista. Ha chiesto il trasferimento quando Patrizio, il padre vedovo, si è ammalato di parafrenia senile, per avere orari regolari e giovedì mattina libero. Lo accompagna dallo psichiatra e lo accudisce sempre, insieme all’amata saggia partner Minerva (nonostante le antipatiche sorelle gemelle), restauratrice, lineamenti perfetti e capelli corvini. Annalisa non cucina, fa ovunque il lavoro sporco ma è soddisfatta. Ora hanno il caso di una 49enne solitaria, Loretta Manarrelli, titolare di un vivaio di piante, probabile suicida sotto un treno proprio quando stava per essere interrogata circa la strana morte del suo amico Damiano Brancher sul Mottarone (Verbania), stritolato da un anaconda. Procure distanti, scarso coordinamento, devono intervenire loro. Ed è l’occasione, al funerale, per reincontrare una brava professoressa delle superiori, Nice Carnera, ora in pensione.
L’analista funzionale (informatica) Paola Sironi (Milano, 1966) inizia una nuova serie nella bella collana (impostata e a lungo diretta dalla grande Tecla Dozio) ove ci aveva già ben raccontato dei vari Malesani. Narrazione in terza persona fissa sulle peripezie pubbliche e private di Annalisa, con brevissimi intermezzi in corsivo (ancora in terza) per Damiano, Loretta, Nice, e soprattutto per papà Patrizio. Lui ormai vive quasi solo il proprio mondo di “continuatore di film”: attinge alla memoria di dettagliate precise storie da grande o piccolo schermo, per aggiungervi avvenimenti inventati, con bizzarra creatività e protagonismo demiurgico. Ci riesce alla grande con Una giornata particolare di Scola. Essendo molte le inconsuete incognite del caso anche l’inconscio paterno potrà essere utile: da dove arriva l’anaconda verde, visto che è una specie di cui è vietata la detenzione e la vendita? E perché si è suicidata la donna che considerava l’assassinato come il miglior unico amico e aveva sul tavolo della cucina un foglietto scarabocchiato con “quelle che odiano i fiori” (che è pure il titolo del romanzo)? Scavando appena un poco ci si imbatte in donne sfruttate, nella tratta e nella schiavitù delle prostitute nigeriane, un tunnel (quasi sempre) senza via d’uscita, né in Europa né in patria. Anche in questo intreccio noir (e giallo insieme) ci sono dunque perlopiù donne, tutte a loro modo interessanti e vivaci. Invece, i due maschi coinvolti sono pessimi, uno fottitore e schiattato, uno vecchio e cattivo.
La clinica Riposo & Pace. Commedia nera n. 2
Francesco Recami
Noir
Sellerio
2018
Pag. 212 euro 14
Il borghetto. Ieri. C’era una volta l’elegante seicentesca Villa Riposo & Pace sulle amene colline preappenniniche, in mezzo a cipressi e olivi, dove si portavano parenti a morire in fretta. Fungeva da costosissima casa di riposo per anziani non autosufficienti, consistente di tre bei corpi separati per tutte le esigenze. Onerosa inopinabile caparra; costi altissimi pur con permanenze tendenzialmente brevi; sperimentata garanzia di efficienza e riservatezza sotto la guida del Professore; ristorante stellato a chilometro zero e resort di lusso con piscina per parenti e conoscenti dei ricoverati. Poi venne il momento di un grave guaio: vi fu condotto dalla nipote cinquantenne Mikaela accompagnata dall’elegante marito Roberto l’85enne Alfio Pallini, grande e grosso, un metro e novanta per 120 chili, braccia e dita da fabbro, in permanente contatto con l’amico e alter ego Ulrich. Soffriva di sindrome degenerativa su base circolatoria, demenza senile in stato avanzato (delirio, mania di persecuzione, marcata aggressività), era già in terapia con farmaci antipsicotici atipici come la quetiapina. Venne messo nella stanza numero 9 al secondo piano, quella dei “moribundi in pocha semana” (secondo l’inserviente di colore), due letti, il vicino era appena morto, subito sostituito da un altro, Valerio. Alfio faceva sempre attenzione a fingere di dormire, ascoltando tutto; a farsi imboccare le pasticche, gettandole invece di nascosto appena rimasto solo (o conservandole alla bisogna); a gestire con furbizia quiz cognitivi, per therapy, musicoterapia e pure suor Andrea. Forse cercheranno di ucciderlo in vari (scientifici) modi. E il rompicoglioni dovrà adottare vari (fantasiosi) piani d’azione e di fuga.
Il meticoloso divertente scrittore toscano Francesco Recami (Firenze, 1956), noto soprattutto per romanzi e racconti dedicati ai condomini di una casa di ringhiera a Milano, continua la nuova serie toscana (per ora) di favole (incubi) noir, in terza quasi fissa sul resistente maschio. Pare proprio di esserci già stati in un posto così, nella clinica del titolo, di aver ascoltato anche noi quelle conversazioni fra geriatri e medici, fra colleghe infermiere o colleghi guardiani, fra chi vi lavora e i parenti di chi ne usufruisce. Il dolore, la fatica, il residuo pensiero nelle malattie dei vecchi; il mercato applicato alla salute e ai farmaci; la cinica (inevitabile?) commedia nell’evoluzione delle relazioni affettive; i confini della legalità nel trattamento dei corpi e della medicina. La formula è ancora di ironica drammaturgia: la stanza fatidica è al centro praticamente di tutte le 26 scene, distinte in quattro atti: esposizione, complicazione, peripezie e climax, catastrofe. I dialoghi sono tanti, gergali, tipici di ospedali italiani, non solo quel gergo ma anche i cento cocktail di medicine, più o meno “utili” a seconda degli obiettivi. Non solo umani: i gatti sono tantissimi, Aristide soffre proprio di diabete, costano enormemente i croccantini senza carboidrati e l’insulina non la passano per gli animali. Niente alcol in corsia. Uno dei vicini di letto canta di continuo “Un ragazzo di strada” dei Corvi, un tic: “Io sono quel che sono… la gente ride di me… Vivo ai margini della città… una ragazza come te… Sono un poco di buono… lasciami in pace perché…”. Ottima ossessiva terapia musicale.