1. Cercando consenso, diversi gruppi politici si affrettano ad intercettare le esigenze degli elettori, di convincerli. Rincorrono il desiderio individuale – diffuso e banale – di disporre di più denaro. Per questo lanciano promesse su lavoro, riduzioni fiscali, bonus a giovani, bonus a mamme e chi più ne ha più ne metta. Queste promesse hanno presa in contesti deboli, ed il nostro senza dubbio lo è perché vi coesistono differenze intollerabili, da decenni crescenti avendo invertito la linea di tendenza precedente.
Ci sarebbe però meno bisogno di denaro se ci fossero più asili, più spazi sociali, più occasioni di incontro; se gli ambienti di vita non esprimessero drammatiche contraddizioni fra quanto nostalgicamente piace chiamare “centri storici” e quanto definiamo “periferie”, fra espressioni di consolidate relazioni e quanto avvalora pericolosi isolamenti.
Inoltre si determinerebbero positive occasioni di lavoro se si promuovesse una conoscenza del territorio e dei manufatti profonda e sistematizzata; se ci si adoperasse per la loro messa in sicurezza evitando logiche settoriali, quindi con visione sistemica; se le infrastrutture fossero programmate in modo da dare tempestive risposte alle necessità future; se accanto alle iniziative per una “legge sulla riduzione del consumo di suolo” ci fosse determinazione ed iniziativa per provvedimenti tesi alla “riduzione del consumo di tempo”.
Cito spesso l’emblematico titolo del libro di un filosofo francese recentemente scomparso – L’influenza dell’odore dei cornetti caldi sulla bontà umana – a conferma dell’opportunità di politiche che rendano i cittadini ben consapevoli dell’utilità del destinare energie e risorse al miglioramento degli ambienti di vita, per le loro ricadute e positive influenze su sicurezza, rapporti umani, benessere, felicità.
Vorremmo politici in grado di capire l’etica dell’agire in questa direzione; che non ignorino più la Risoluzione n°13982/00 del Consiglio dell’Unione Europea – totalmente disattesa dall’Italia che pure vi ha contribuito – nella quale si sollecitano gli Stati membri a «migliorare la qualità dell’ambiente di vita quotidiano dei cittadini europei attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione…». Invece i nostri ambienti di vita continuano a peggiorare per l’assenza di una politica sensibile a questi aspetti e per vari motivi.
Innanzitutto per l’incapacità di organizzare la piena conoscenza dei territori e del costruito avvalendosi di ormai diffuse tecnologie che consentono coordinamento ed integrazione dei dati con immediata disponibilità delle informazioni propedeutiche a qualsiasi intervento urbanistico o edilizio. La conoscenza integrata, resa agile ed accessibile a tutti, consentirebbe un agire immediato di fronte a catastrofi naturali e positive accelerazioni nella gestione dell’ordinario. Ha costi irrisori se li si rapportano ad eliminazione di sfridi e vantaggi tangibili.
Poi per il continuo affollarsi di norme settoriali e di procedure che ostacolano la qualità diffusa, generate da mentalità tecnicamente incompetenti, competenze settoriali, inconsapevoli di concrete conseguenze ed effetti indotti. La nostra legislazione sugli appalti ha la sua origine nel dover dare risposta ad emergenze di un quarto di secolo addietro ed è improvvidamente confusa con quella sulla progettazione degli interventi, senza ben distinguere competenze e ruoli di chi deve occuparsi di progettazione e chi deve programmare, confrontare alternative e sovraintendere ai processi. Peraltro sarebbe da rivedere la ripartizione delle risorse nei capitoli diversi del bilancio dello Stato e degli Enti locali e occorrerebbe frenare l’adozione di modelli di intervento importati da culture diverse dalla nostra, banalizzanti e terribilmente semplificatori, ma che hanno preso piede perché di fatto sostegno di egoismi individuali o di gruppi ristretti
Infine perché sono insufficienti le azioni su formazione, istruzione, partecipazione: in generale su quanto contribuisce alla cultura, quindi all’evolversi della mentalità dei singoli individui che formano una comunità.
2. Una diffusa rete di centri urbani di varia dimensione rende singolare l’Italia – “terra di città” nel contesto europeo – caratterizzata da quasi l’80% di popolazione urbana, ben oltre quel 50% registrato la prima volta nel 2006 a scala mondiale. Questa formidabile rete di città si è andata però snaturando perché i nostri ambienti di vita – un tempo ammirati come “seconda natura finalizzata ad usi civili” – sono peggiorati e continuano a peggiorare, incapaci di far fronte all’intreccio fra vari fattori di crescita:
- demografica (oggi in Italia +25% dal 1947, il doppio di 100 anni fa, 5 volte quelli del ’700);
- delle superfici costruite (standard che si evolvono; crescente domanda di spazi);
- del consumo di suolo (superficie urbanizzata pro-capite ormai con diverso ordine di grandezza rispetto a qualche decennio addietro);
- mobilità e spostamenti alle varie scale (nel numero e per l’improprio impegno di tempo, forse tra i fattori che portano a dati sconcertanti: di fronte ad un PIL che cresce dell’1,5%, i dati dell'Enea registrano nei primi 6 mesi del 2017 emissioni di CO2 salite dell'1,9%. Crescono cioè di più inquinamento e costi dell’energia.
Non solo: le dinamiche tecnologiche e sociali accentuano il divario con la staticità del costruito; mentre criteri d’intervento importati da altre culture favoriscono la riduzione della densità nelle aree urbanizzate e ignorano il sostanziale ruolo dei luoghi di socializzazione. Si è generata quindi una drammatica distinzione fra “città” e “territorio urbanizzato”, peraltro sostenuta da inenarrabili condizioni del progettare.
Perché costruire risponda ai suoi compiti primari occorre una mutazione culturale: la capacità di invertire questo processo agendo anche su “domanda di progetto”, sull’entità delle risorse per soddisfarla, su regole e procedure per le concrete azioni attuative. Soprattutto quindi sulla domanda, fiduciosa della possibilità di trasformare, quindi colta, carica di nostalgia di futuro più che di nostalgia del passato.
Nei territori metropolitani, al di là delle loro evidenti diversità, occorre evitare parcellizzazioni amministrative e generare la massa critica indispensabile a competitività ad ampia scala; promuovere e rintracciare dense reti di “luoghi di condensazione sociale” che realizzino la “città dei 5 minuti”; sperimentare forme di mobilità alternativa: alcune città europee ad esempio intendono disincentivare il trasporto individuale (in Italia ha livelli elevatissimi, anche doppio rispetto ad altre realtà) e stanno per rendere gratuito il trasporto pubblico su capillari reti ecologiche.
3. Nelle nostre realtà si è venuta a creare un sostanziale differenza fra “città” e “territori urbanizzati” non più “seconda natura finalizzata ad usi civili” ed espressione di civiltà e valori umani. La politica dovrebbe impegnarsi anzitutto nel “civilizzare l’urbano”.
I problemi cruciali della nostra epoca – energia, ambiente, cambiamento climatico, sicurezza alimentare, sicurezza finanziaria – sono interconnessi e interdipendenti. Le ottiche settoriali e separate con le quali si continuano ad affrontare fanno sì che nel buon senso comune prevalga la nostalgia del passato. Occorre ridare fiducia, promuovere “politiche esemplari”, come dice un’Europa che non è soggetto esterno, ma della quale siamo tra i promotori e nella quale abbiamo ruolo rilevante. Vorremmo ritrovare politiche esemplari, tese a migliorare i nostri ambienti di vita, nei programmi della politica, nazionale e locale.
Vorremmo una gestione della Città Metropolitana cosciente che non l’unione (peraltro debole), ma solo la vera fusione di Comuni è in grado di dare massa critica ai territori e renderli competitivi a scala nazionale ed internazionale.
Vorremmo che Napoli non indicasse più un territorio strettamente confinato, nostalgico e paralizzato da uno strumento urbanistico nato vecchio, prescrittivo, schematico, sempre più anacronistico.
Vorremmo indirizzi agili e concreti, adatti ad una realtà ampia, ricca di energie e di creatività, da non soffocare, ma da fiduciosamente dirigere verso un diverso futuro.