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Minori?

Minori è l’aggettivo col quale ricorrentemente si definiscono le piccole isole. Ma minori e piccole non sono l’uno sinonimo dell’altro.

Esiste perfino una associazione, l’ANCIM, (Associazione Nazionale Comuni Isole Minori) fondata ufficialmente l’8 giugno 1986 all’isola del Giglio. Rappresenta 36 comuni nei quali sono residenti oltre 200.000 persone che, poi, diventano milioni durante la stagione estiva.

L’obiettivo è:

  1. superare l’emarginazione;
  2. superare i gap legati all’insularità: scuola, sistema socio-sanitario, infrastrutture (materiali e immateriali), trasporti;
  3. superare la prassi di uno sviluppo incentrato quasi esclusivamente sul turismo attraverso la valorizzazione delle tradizioni socio culturali e dei prodotti tipici di qualità;
  4. superare le azioni di sviluppo frazionate nelle 36 realtà comunali per ricuperare la forza di un agire comune e di un agire integrato.

L’esistenza di questa associazione e degli obiettivi che si pone mi fa ancora di più dubitare sulla correttezza dell’uso dell’aggettivo “minori”. Oltre tutto mentre piccolo è un aggettivo che consente di inquadrare abbastanza rapidamente ciò di cui si vuole parlare più difficile è che ciò avvenga con l’aggettivo minori.

Se parlo di una piccola isola è abbastanza evidente che non mi riferisco alla grande (o grossa?) Gran Bretagna, né mi riferisco alle più piccole ma enormemente più grandi Sicilia, Sardegna, Corsica, tanto per restare nel Mediterraneo che ci è più vicino. Mediterraneo nel quale di isole se ne contano 190 le cui dimensioni variano dai 25.460 chilometri quadrati della Sicilia ai 5,8 di Tavolara, Levanzo e Ano Koufonisi. Volendo potremmo addirittura stabilire una dimensione in chilometri quadrati al di sotto della quale considerare piccole le isole che non la superano. Se la ponessimo a 50 kmq potremmo dire che 76 sono più grandi e le restanti 114 piccole.

Ma non mi verrebbe mai in mente di definirle maggiori e minori.

Volendo continuare di questo passo non si può fare a meno di ricordare che, come ci suggeriva nel 1973 Ernst Friedrich Schumacher, “piccolo è bello” (Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Ugo Mursia Editore, Venezia). E, volendo associare questa affermazione alle isole come negarne la validità per le piccole Eolie, per esempio, e per le piccole isole del golfo di Napoli? Le quali tutte lo sono “piccole e belle” tanto da essere riconosciute come patrimonio dell’Umanità le prime e lavorare seriamente all’ipotesi di questo riconoscimento l’isola di Ischia.

Tuttavia si insiste a ritenere minore sinonimo di piccolo. Anche a livello “istituzionale”. È, per esempio il caso del Comieco (Consorzio Nazionale per il Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica) che il 17 giugno del 2017 in collaborazione con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile ed Esa spa (Elbana Servizi Ambientali), con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente e del Parco dell’Arcipelago Toscano, ha organizzato a Portoferraio, sull’isola d’Elba la prima edizione degli Stati Generali delle Isole Minori per la Raccolta Differenziata di Carta e Cartone.

Il motivo di questo evento è stato visto nella considerazione che in Italia «sono 30 le isole minori, autentici scrigni di bellezza che durante la stagione estiva vedono moltiplicarsi le presenze. Ne conseguono, spesso, problemi ambientali quali l’aumento esponenziale dei rifiuti. Si tratta di ecosistemi particolarmente fragili, dove risiedono complessivamente circa 200 mila abitanti distribuiti in 36 Comuni: lo 0,3% della popolazione nazionale sullo 0,3% del territorio nazionale».

Un’occasione per presentare anche il Manifesto per le Isole Minori. Ma soprattutto per presentare lo studio della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile che ha analizzato le modalità di gestione dei rifiuti urbani nelle isole “minori” italiane, valutandone le problematiche e individuando possibili soluzioni di miglioramento della raccolta differenziata, in particolare della carta e del cartone.

«Le Isole Minori – ha osservato Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – registrano mediamente quote di raccolta differenziata inferiore rispetto alla restante parte del territorio. Tuttavia, si riscontrano anche situazioni di eccellenza, come ad esempio il 73% dell’isola di S. Antioco, il 69% di La Maddalena e il 66% di Procida. Quindi è possibile ottenere risultati importanti anche in queste realtà. Ciò dimostra che anche nelle Isole Minori esiste un significativo margine di crescita della raccolta differenziata e del riciclo. Questo richiede politiche di sostegno, investimenti e partecipazione di tutti i soggetti coinvolti».

La ricerca svolta dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile individua misure mirate a raggiungere questo risultato. Secondo la ricerca occorrono investimenti che tuttavia saranno ripagati da minori costi e maggiori introiti. Raggiungere il 65% di raccolta differenziata consentirebbe, infatti, di risparmiare per mancato smaltimento fino a 3 milioni di euro l’anno per tutte le comunità isolane. Incrementare il compostaggio porterebbe risparmi fino a 4 milioni di euro l’anno e i benefici derivanti dal maggior riciclaggio della carta arriverebbero fino a 2,4 milioni di euro l’anno.

 

Comunque belle e brave

Detto tutto questo, e non solo per cronaca; insistendo sulla inopportunità di utilizzare l’aggettivo “minori” per riferirsi alle piccole isole e volendo anche dare per scontato che non c’è cattiveria, per così dire, ma solo pigra utilizzazione degli aggettivi, me ne faccio una ragione e vado avanti.

Per sottolineare un importante problema che va al di là della raccolta dei rifiuti e alcune “buone pratiche” che possono essere un esempio per altre vaste aree della Terra: anche su terraferma.

Il tema delle isole, di tutte le dimensioni, è oggi, da qualche tempo, di crescente importanza. Non solo dal punto di vista turistico, ma, ancor più, da quello della loro sopravvivenza e la terraferma ha l’obbligo di intervenire prima che sia troppo tardi.

Lo ricordavo già nel mio intervento dell’anno scorso quando passando dall’isola che non c’è a quelle che ci sono, mi chiedevo: Ma ci saranno sempre? E tutte? O dobbiamo prendere in considerazione anche l’ipotesi dell’isola che non ci sarà? La realtà è che isole a rischio di estinzione ve ne sono: un po’ per il modo sconsiderato di utilizzarne le caratteristiche naturali; molto di più perché i mutamenti climatici in atto costituiscono un potenziale e realistico motivo di scomparsa per sommersione.

Nel primo caso gli esempi più significativi e più di frequente citati sono le isole Rapa Nui[1] e Nauru[2] delle quali già si è parlato lo scorso anno. Così come pure si è già parlato delle Kiribati che, insieme con le Maldive[3] e altre, vanno proposte come esempio delle isole che non ci saranno più. O che potrebbero non esserci più.

Altre isole e arcipelaghi soprattutto nel Pacifico sono coinvolti. Ma vi sono anche esempi per così dire “virtuosi”, di isole che consapevoli del rischio cercano soluzioni di rimedio che non costringano gli abitanti ad andarsene.

Gli esempi più ricorrenti e, per quanto legati ad isole piccolissime, significativi sono Gozo nel mediterraneo vicina a Malta che è la seconda isola, per superficie, dell'arcipelago delle Isole Calipsee; l’isola danese di Samsø nel Kattegat; l’isola greca di origine vulcanica Agios Efstratios (Agiostrati) nel Mar Egeo. Sono tutti esempi di isole che puntano ad essere completamente indipendenti dai combustibili fossili di importazione sostituendoli con le “autoctone” energie rinnovabili: sole e vento soprattutto. Il caso più rappresentativo è quello di Tuvalu nell’arcipelago polinesiano. L’isola, molto piccola (26 kmq) e abitata da circa 12.000 persone, è spesso esposta ad inondazioni e mareggiate tanto che Nuova Zelanda e Australia sono state allertate per concedere asilo in caso di bisogno. Ma, in aggiunta, gli amministratori hanno anche deciso di sganciarsi dalla totale dipendenza dal petrolio neozelandese sostituendolo con il ricorso a biomasse, sole e vento in modo da essere totalmente indipendenti entro il 2020.

Entro il 2020, ma vi sono venti isole che già sono totalmente sganciate dai combustibili come rende noto un dossier di Legambiente (Isole 100% rinnovabili) del luglio 2016.

El Hierro, nelle Canarie, è stata la prima in assoluto a raggiungere il 100% di energia verde: i suoi 10.000 abitanti non solo si riforniscono da impianti idro ed eolici per i consumi domestici, ma l'energia prodotta servirà anche per coprire la mobilità elettrica per tutta l'isola. In molto casi, la conversione alle rinnovabili ha permesso di abbandonare centrali ad alto tasso di inquinamento come impianti alimentati ad olio combustibile. È accaduto per l'isola di King, tra l'Australia e la Tasmania. Le isole più vicine alla costa hanno poi risolto il problema della dipendenza dal continente, come la ricordata danese Samsø Mentre la tedesca Pellworm tra eolico e impianti di cogenerazione addirittura produce più dell'energia necessaria per i suoi 1.200 abitanti e la esporta.

Sono tutti esempi indicativi di cambiamenti, come dicevo, “virtuosi”, ma il problema resta. Perché il problema è che si ha un bell’autoprodurre energia da risorse rinnovabili dando in questo modo un contributo al planetario problema climatico, ma se non faranno altrettanto i grandi e grandissimi inquinatori non per questo quelle isole si salveranno.

Insomma poiché le isole sono fra i luoghi del pianeta dove gli effetti del cambiamento climatico si avvertono in maniera più evidente soprattutto per la minaccia incombente dall’innalzamento del livello dei mari stanno diventando anche quelle che tentano di offrire al resto della Terra un esempio di comportamento.

Il che ci consente, con una punta di ottimismo, di dire che non dobbiamo parlare dell’isola che non ci sarà ma dell’isola che potrebbe non esserci.

 

E in Italia?

Eppure mentre nel mondo le isole sono oggi al centro del cambiamento energetico, con importanti risultati di produzione da fonti rinnovabili, nelle piccole isole italiane è tutto fermo malgrado le rilevanti potenzialità. E malgrado il più volte promesso decreto del Ministero dello Sviluppo Economico per promuovere le rinnovabili nelle piccole isole.

E ciò mentre è ben noto che da Lampedusa al Giglio, da Marettimo a Ponza, è possibile cambiare completamente scenario energetico puntando sul contributo di sole, vento, maree e delle altre rinnovabili. Invece vi sono ancora 18 casi di isole alimentate da impianti a gasolio (Eolie, Egadi, Pontine, Pantelleria, Lampedusa, Ustica e il Giglio).

Il problema, perciò, sta non solo in quello che non si fa, ma in quello che si fa per disporre di energia nelle isole le quali non essendo allacciate alla rete ottengono la loro elettricità da impianti diesel obsoleti, che producono una energia costosissima, sui 450 €/MWh, circa 10 volte più cara del PUN nazionale (“QualEnergia.it” Alessandro Codegoni,16 dicembre 2016).

 

E Ischia?

Non ripeterò di Ischia quanto già detto e scritto in occasioni precedenti a proposito della sua natura e cultura e della sua possibile aspirazione ad entrare nel patrimonio Unesco, ma a queste considerazioni degli anni passati aggiungo solo una riflessione in direzione delle virtù che ora richiamavo in altre isole. Certo. Al momento è difficile immaginare Ischia e le altre isole campane, ma soprattutto Ischia, nel catalogo delle isole a rischio di sommersione per estinzione. Anche se le mareggiate non sono rare e sommergono le aree interessate non diversamente di quanto avviene per la laguna di Venezia.

Tuttavia se il problema non è il rischio di sommersione non per questo l’isola potrebbe trascurare di porsi un obiettivo simile a quello delle piccole isole virtuose che prima citavo. Ischia, rispetto a quelle, ha lo stesso patrimonio naturale di mare, sole e vento con in più la non trascurabile presenza della geotermia. L’ultimo in ordine cronologico ad averne parlato proprio qui ad Ischia tre anni fa e ad averne scritto nell’ultimo dei suoi interventi prima della dolorosa scomparsa è stato Paolo Gasparini nella sua rivista Ambiente Rischio Comunicazione (Ischia come sorgente di energia geotermica, luglio 2016). Di tutto questo si dovrebbe tenere doverosamente conto per il bene degli isolani, dei numerosi turisti e per consentire di giocare una carta in più se mai si vorrà dare concretamente fede alla possibilità di candidare Ischia a patrimonio dell’umanità.

Perché come scriveva Maiuri (giugno 1947): «Ischia è tale delicata bellezza da imporre anzitutto un sentimento di rispettoso amore, che è quanto dire non contaminare, non tradire quello che è il patrimonio sacro dell’isola. E poiché valorizzare non è strafare per mania del grande, per ipertrofia e gonfiezza, gli errori del passato qualcosa dovrebbero insegnare».

E, queste, in chiusura, mi sembrano una preoccupazione ed una indicazione esemplari. Ha settant’anni questo scritto, ma non ha perso nulla del suo valore. Anzi gli eventi di questi settant’anni gliene hanno fatto guadagnare. Ed è esemplare perché dovrebbe costituire un esempio di comportamento (quello auspicato da Maiuri) valido non solo per Ischia, ma per tutte le isole, grandi e piccole, note e sconosciute e, magari “minori”

Anche perché il grande “arcipelago” delle piccole isole con la loro natura e cultura, costituisce un bene comune. Cioè un bene che è patrimonio di tutti, ma del quale nessuno può pretendere l’esclusiva. E questo è anche un modo per dare il significato che merita all’aggettivo “sostenibile” sempre più pigramente e malamente usato. Perché messo accanto al sostantivo “turismo” ne indica la strada da seguire: quella di un modo di praticarlo tale da non compromettere per le generazioni future la qualità di quel bene e il godimento che se ne ricava.

 

Scuola Scienza & Società 2018, (piccole) isole nella corrente. Evoluzione naturale, culturale e sociale nel Mediterraneo, Ischia, 21-24 febbraio 2018

 

Note

[1] Secondo recenti studi 1.000-1.200 anni fa Rapa Nui (l’Isola di Pasqua), nell’oceano Pacifico, era totalmente coperta di palme con una popolazione numericamente modesta. L’esigenza di legname diede origine ad un diboscamento che raggiunse il massimo livello nel 1400 quando la popolazione salì a 20.000 abitanti. Il legname cominciò a scarseggiare, l’isola a isterilirsi, la popolazione a diminuire. Il perché della perdita di alberi e della quasi totale sparizione della fauna endemica sembra sia stata provocata dai ratti (Rattus exulans) che raggiunsero l’isola al seguito dei primi colonizzatori. Anche qui, come in Australia con i conigli, l’assenza di predatori naturali permise a questi piccoli mammiferi di moltiplicarsi a dismisura e, considerato che nella loro dieta alimentare entrarono immediatamente anche i semi di palma, si ritiene che abbiano potuto contribuire sensibilmente all’estinzione degli alberi dell’isola. Con la scoperta dell’Isola di Pasqua da parte degli europei (il primo a sbarcare sull’isola fu l’olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua) le cose, naturalmente, peggiorarono anche perché Spagnoli, Inglesi e Francesi avevano importato sull’isola varie malattie quali la sifilide e l’influenza, mietendo numerose vittime tra la popolazione indigena. Fu quindi il momento di una serie di razzie da parte di mercanti di schiavi che tra il 1859 e il 1861 deportarono parte della popolazione sull’isola di Chinches di fronte alle coste del Perù. Le deportazioni, le malattie e le faide interne provocarono la continua riduzione della popolazione che nel 1877 contava appena 111 abitanti. Oggi sono 3.791 (2002).

[2] Nauru isola dell’Oceania della Micronesia, indipendente dal 1968, con una superficie di 21,4 km² e 10.000 abitanti che è considerata la repubblica indipendente più piccola del mondo, sia per abitanti che per superficie. Nel 1899 fu scoperto che l’isola possedeva ricchi giacimenti di fosfati e grazie alla loro esportazione, i Nauriani divennero i titolari del più elevato reddito pro capite della Terra (e presentavano il più alto tasso di obesità, il 78% per le donne e l’80% per gli uomini). Ma dovevano la ricchezza al fatto che stavano vendendo, letteralmente, la propria isola, pezzo per pezzo. I Nauriani possiedono più automobili di qualsiasi altro abitante della Terra, ma non hanno strade su cui farle correre; possiedono più merci e frigoriferi di chiunque altro, ma devono importare gli alimenti da conservare e perfino l’acqua da bere, oltre alla benzina e alla mano d’opera per l’estrazione dei fosfati. Questo è il dramma di Nauru. Ma, oltre alla devastazione causata dallo sfruttamento minerario, Nauru è minacciata anche dal pericolo dell’innalzamento del livello marino. Tanto che l’ONU ha proposto di trasferire tutti gli abitanti altrove. Insomma lo sfruttamento e lo scempio naturalistico sono stati talmente incontrollati da aver reso sterile e inospitale un’isola che un tempo era florida ed accogliente. Secondo Giorgio Nebbia che è stato uno dei primi a far conoscere il problema, Nauru è anche da vedere come metafora del pianeta perché «I Nauriani possono – forse – trasferire la loro ricchezza e le loro macchine in un altro posto», ma noi terrestri non possiamo mettere nessuna inserzione del tono: “Pianeta cercasi”.

[3] Kiribati è un arcipelago di isole e di atolli dell’Oceania di meno di due metri affioranti dal mare le quali, per questo motivo, vengono considerate a rischio di estinzione entro una sessantina d’anni se non si bloccheranno gli effetti più gravi del mutamento climatico, cioè lo scioglimento dei ghiacciai polari e il conseguente innalzamento del livello dei mari. Per mettere in salvo la popolazione di oltre 100.000 persone nel 2014 è stato acquistato un appezzamento di terreno nelle isole Fiji a 3.000 chilometri di distanza (può essere un’utile lettura: AA.VV., Kiribati, il sole 24 ore, 2017). Stesso problema per gli stessi motivi con l’aggiunta di un turismo sempre più di massa, invasivo e poco attento al futuro, è quello che riguarda le ancora più famose isole Maldive nell'Oceano Indiano a sud-ovest dell'India. Anche queste isole sono appena affioranti dal mare con una costa che supera di poco il metro di altezza dalla superficie marina. La loro attrattiva turistica richiama milioni di turisti il cui impatto economico è molto positivo mentre quello ambientale è fortemente negativo. Insomma queste isole sono anche assimilabili a Nauru: perché anche qui l’isola si sta mangiando il capitale natura con in più l’accelerazione del potenziale disastro imputabile ai mutamenti climatici. Già 220 di queste isole sono ormai disabitate e il pericolo è tale che il governo maldiviano da anni si sta mobilitando per acquisire terreni in Australia, India e Sri Lanka per consentirvi il trasferimento dei 320mila abitanti.


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