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La parola natura, ancor più che il concetto di natura, è comparsa più volte in articoli di La Lettura, il supplemento domenicale del Corriere della sera.

Provo a seguirne l’itinerario partendo da un articolo di Alessandro Piperno – Perché odio la natura – del 13 agosto del 2017.

Piperno si chiede «cosa ha fatto per noi la Natura per meritarsi tante attenzioni». E la risposta è che proprio non si capisce il perché di queste attenzioni dal momento che «da centinaia di migliaia di anni ci infligge pestilenze e calamità, carestie e inondazioni». Dal che lo scrittore dice che la rispetta «come si rispettano i tiranni capricciosi o i carcerieri sanguinari», ma non la ama. Né è in grado di manifestare accordo o disaccordo con chi trova relazioni tra i comportamenti umani e i mutamenti climatici. Perché, come ribadisce più volte, non è uno scienziato, non se ne intende e rivendica il diritto «ad avercela con la Natura, a guardarla con sospetto e a tifare sempre o quasi per la mia avida specie».

No, Piperno non è uno scienziato (come molti scienziati non sono scrittori pur senza odiare la Letteratura) e, come è naturale e quasi doveroso, è lettore di molti scrittori, come, con pacata modestia ci fa sapere: Parise, Francesco Piccolo, Maupassant, Baudelaire, Leopardi, Cechov, Kafka. Scrittori dei quali non sono in grado di riconoscere il loro rapporto con la natura (che Piperno scrive sempre rispettosamente con la N maiuscola). E, comunque, a quali riflessioni invita la lettura del suo articolo uno come me, e i tanti come me, che non sono scienziati né scrittori? Personalmente manifesto un po’ di fastidio per queste – naturalmente sempre legittime – posizioni.

Mentre scrivo e mi guardo intorno ho davanti a me la visione del Vesuvio e girando testa e sguardo verso sinistra vedo i Campi Flegrei: due doni della natura. Peraltro anche tra quelli potenziali portatori di quelle calamità in seguito alle quali Piperno non comprende perché si riservano tante attenzioni alla natura (il problema, invece, è che se ne riservano poche e quando la natura ce lo ricorda è troppo tardi). Li guardo con passione questi due doni e il pensiero va indietro di mesi e si ferma proprio al mese nel quale scriveva Piperno per ricordare i tremendi incendi che vi furono appiccati da qualche bestia umana. Bestie umane. Se proprio vogliamo provare sentimenti di odio, è questa specie di nostri concittadini del pianeta Terra che dobbiamo gratificare di questo sentimento, non l’incolpevole natura che ne subisce il danno. Quella natura che ci ha offerto spazi incontaminati in cui vivere; risorse in grande abbondanza da trasformare in prodotti e beni di consumo, l’alternanza delle stagioni, l’acqua e l’aria. E non ha inventato l’inquinamento che ne distrugge e limita le disponibilità; né le case che crollano ad ogni scossa di terremoto; né quelle costruite lungo il corso dei fiumi irreggimentati in corsi innaturali; né, né, né… Insomma, se posso confrontarmi, non sono un naturalista, ma la natura la amo.

Proseguendo nell’itinerario mi fermo sulla lettura dello stimolante articolo di Edoardo Boncinelli sempre su La Lettura dell’8 aprile 2018. Un articolo sotto un occhiello che già di per sé ne chiarisce i contenuti.

L’occhiello ci ricorda che «Si fa un gran parlare di fake news, di notizie false, o quasi false, o di mezze verità. Il problema – nonostante le opportunità della globalizzazione, che ha facilitato la condivisione della conoscenza – è che l’ignoranza aumenta».

Segue il titolo che è: Ditemi: cosa significa natura? Il senso perduto delle parole.

Già il titolo dell’articolo di Boncinelli mi ha molto incuriosito e la lettura che ne ho subito fatto mi ha indotto a una riflessione sulle considerazioni, che molto condivido, di questo importante genetista.

Soprattutto per quanto riguarda “il senso perduto delle parole” e la negativa influenza che questa perdita ha avuto sull’“abbassamento del livello culturale” dovuto, secondo Boncinelli «a un appannamento dei significati. Dei significati delle parole, e di conseguenza delle frasi».

È un’importante riflessione e un importante invito alla riflessione. Dal momento che «quello delle parole è il più grande patrimonio che noi possediamo, perché tutto deve passare obbligatoriamente per le parole».

Il problema, continua Boncinelli, non dipende tanto dalla struttura del vocabolario, ma dal suo uso. «Parole come “algoritmo” e “biodiversità” hanno un significato ben preciso, che però molti non conoscono; altre come “resilienza” e “empatia” non hanno neppure un significato ben definito; altre infine, come “populismo”, “neocapitalismo” e la stessa “democrazia” andrebbero ridefinite di tanto in tanto, per non parlare di “energia”, il termine che detiene il primato assoluto di utilizzazioni con significati diversi e aberranti».

Aggiungerei all’elenco la parola che forse più ancora detiene questo primato di utilizzazioni con significati diversi e aberranti che è, dal 1987, l’aggettivo “sostenibile”. E il quadro si va completando.

Ma attende ancora risposta alla domanda contenuta nel titolo dell’articolo: “Ditemi: cosa significa natura?”. La risposta è che la parola natura insieme con il suo aggettivo naturale «ha subìto e subisce tanti di quegli abusi da arrivare a non significare più niente». La conclusione è che per fare chiarezza «potrebbero fare moltissimo i media se non fossero essi stessi base del fenomeno… la scuola può tanto, ma implica tempi lunghi. Non resta quindi che la cultura… le persone di cultura hanno soprattutto quest’obbligo: aiutare a mettere i puntini sulle i e proteggerci dal marasma culturale che ci minaccia… rettamente intesa, la cultura è la carne e il sangue della nostra umanità».

Infine, in questo mio itinerario, giungo a Telmo Pievani (La Natura immutabile è un inganno smentito dalla scienza, La lettura, 29 aprile 2018), il quale si sofferma sul concetto di “normalità” generalmente ritenuta sinonimo di naturale: «Se qualcosa è naturale, allora è anche normale e giusto. Ci viene istintivo pensare in questo modo, ma ne siamo sicuri?».

No sostiene Pievani, perché il concetto di Normalità «implica che chi non si conforma allo standard, alla norma appunto, sia un deviante, con spiacevoli conseguenze in termini di pregiudizi e discriminazioni». Eppure, continua, «molte tirannie e schiavitù sono cadute proprio perché qualcuno, magari dal chiuso di una cella per decenni, non ha mai smesso di credere che quelle ingiustizie non facessero parte di alcun “ordine naturale delle cose”, come si era sempre pensato prima».

Così stanno le cose e condividerne la riflessione rafforza quanto sostiene Boncinelli a proposito del senso perduto (o sbagliato?) delle parole.

Proseguendo nella sua riflessione Pievani scrive che la normalità, se connessa alla natura, si presenta in tre forme: la normalità intesa come «frequenza statistica di un tratto comportamentale o morfologico ritenuto fisiologico»; come aderenza «a una presunta “essenza” naturale o genetica». Accezione quest’ultima che diviene insidiosa «quando alla normalità si associa un valore morale». Cioè «quando affermiamo che sarebbe anormale o “contro natura”, dunque immorale, comportarsi in un modo che non ci piace». A questo punto, in questo modo, si entra nella terza accezione individuata da Pievani nella quale la Natura «con la maiuscola diventa un’entità astratta e generalizzata». E «nonostante la sua evidente illogicità, siamo ancora attratti dall’argomento secondo cui l’aggettivo “naturale” – dato a un cibo o a un cosmetico o a un modello di famiglia – sia di per sé sinonimo di buono, saggio e armonioso».

È una riflessione simile a quella di Giorgio Nebbia a proposito di ecologia (Che fine ha fatto l’ecologia?, La gazzetta del Mezzogiorno, 19 gennaio 2016): «La generazione del “Sessantotto” scoprì nell’ecologia la bandiera di una contestazione della società dei consumi e del relativo inquinamento, della congestione delle megalopoli, dei nuovi veleni. L’apice dell’attenzione per l’ecologia si ebbe nel 1970 e la nuova parola significò aspirazione a “cose buone”, pulite. I venditori non persero tempo ad appiccicare il nome “ecologia”, ai detersivi, alla benzina, ai tessuti. Diecine di cattedre universitarie cambiarono nome e presero il nome di “ecologia”. L’ecologia entrò in Parlamento e ci fu perfino un breve “Ministero dell’ecologia”, ben presto soppresso; solo dopo vari anni sarebbe stato istituito un ministero ma questa volta “dell’ambiente”».

Ma ben presto il potere economico si rese conto che queste premesse e l’interesse montante nell’opinione pubblica l’avrebbero costretto a cambiare i cicli produttivi e i quotidiani stili di vita. Di conseguenza «l’attenzione per l’ecologia declinò presto e nuovi aggettivi più accattivanti comparvero come “verde”, “sostenibile” e, più recentemente “biologico”, da associare al nome di prodotti commerciali che un venditore vuole dimostrare “buoni”».

Ma Pievani aggiunge che «se fossimo coerenti, dovremmo considerare buoni e giusti anche l’infanticidio e il cannibalismo, di cui la natura abbonda, nonché le più atroci malattie e la zanzara tigre che anche quest’anno tormenterà le nostre serate estive».

In conclusione, «normalità e natura non vanno d’accordo perché la seconda è il dominio della possibilità non della necessità, e non ci toglie autonomia e responsabilità etiche». Pertanto non si è lontani dalla verità pensando che ciò che oggi ci sembra normale e naturale possa essere «presto messo in discussione dagli sviluppi delle biotecnologie». Per cui, è la conclusione di Pievani, «se vogliamo trovare giustificazioni per le nostre idee di normalità, non cerchiamole nella natura».

Pienamente d’accordo potrei concludere questo (in)naturale itinerario. Ma non finisce qui perché quello stesso 29 aprile L’Espresso nella sezione Cultura col titolo Natura in pericolo, pubblica un articolo di Emmanuelle de Villepin che mi aggiunge un doloroso paragrafo: Viaggio al termine del pianeta. Un articolo nel quale l’autrice racconta la dolente denuncia di Anne de Carbuccia sulle sorti dell’Amazzonia.

È questo il “termine del pianeta” al quale ci si riferisce ed è qui che la brava e coraggiosa “artista ambientalista” si è recata per il suo viaggio il 10 dicembre 2017. Ed è qui che, navigando insieme con i suoi compagni di viaggio, su una piccola piroga che ha misurato la progressiva lacerazione della foresta ad opera di deforestatori senza scrupoli pronti anche a uccidere chi dovesse ostacolarli nella realizzazione dei loro lauti guadagni. Perché, come ha dichiarato la de Carbuccia a Emmanuelle de Villepin, «noi non abbiamo nessuna esperienza di luoghi che non appartengano all’uomo. La natura è molto più potente di noi ed è cercando di affrancarsene che l’uomo ha fatto del pianeta ciò che ha fatto».

È normale tutto questo? Direi proprio di no e, d’accordo con Pievani, poiché tutto ciò – in aggiunta al tanto altro – lo considero assolutamente anormale e amorale, se proprio volessi cercare giustificazioni a queste mie idee di normalità, non le andrei certo a cercare nella natura.


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