Neutrini superluminali, bosone di Higgs, onde gravitazionali primordiali. E poi una nuova particella elementare e onde gravitazionali prodotte da violenti eventi astrofisici. La fisica sta vivendo anni davvero molto intensi, come dimostrano queste grandi scoperte annunciate di recente.
Ma c’è un problema: solo alcune di queste scoperte sono vere. Per la precisione, lo sono il bosone di Higgs (annunciato nel 2012) e le onde gravitazionali generate dalla fusione di due buchi neri (2016) e di due stelle di neutroni (2017). Le altre sono state sì annunciate – in alcuni casi timidamente o quasi “involontariamente”, in altri con squilli di trombe – finendo per essere poi smentite nel giro di qualche mese.
Perché accade? Di sicuro perché gli scienziati sono esseri umani come tutti gli altri, e commettono errori. Ma succede anche che a volte scienza e comunicazione non corrano esattamente alla stessa velocità, producendo conseguenze spesso irreparabili. Un rischio che appare forse più concreto oggi che in passato, complici la rapidità dei social network e dei nuovi media e la “globalizzazione” della scienza moderna.
Come dimenticare, ad esempio, la vicenda tragicomica dei neutrini superluminali, diventata un caso di studio ormai già “classico”. La sua genesi fu una semplice telefonata: il 21 settembre 2011 il fisico Antonino Zichichi chiamò il giornalista di il Giornale Vittorio Macioce per comunicargli una voce riguardante l’esperimento OPERA, in corso presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. L’esperimento studiava alcune proprietà dei neutrini (particelle elementari di massa piccolissima) “sparati” sotto la crosta terrestre dal CERN di Ginevra verso il Gran Sasso. Secondo Zichichi, i ricercatori avevano ottenuto un risultato incredibile: la velocità misurata dei neutrini risultava infatti maggiore di quella della luce nel vuoto, ossia il limite massimo di velocità per qualunque particella dotata di massa, imposto dalla teoria della relatività di Einstein. Un risultato che, se confermato, avrebbe comportato una nuova rivoluzione copernicana nella fisica moderna, di cui la teoria di Einstein è uno dei capisaldi più solidi.
Macioce pubblicò subito su il Giornale la conversazione con Zichichi, e in breve tempo la notizia fece il giro del mondo. I ricercatori di OPERA (che avrebbero comunque comunicato la scoperta a breve) non poterono più nascondersi, ma si mostrarono fin da subito anche molto prudenti, non escludendo la possibilità che qualche errore sistematico avesse inficiato la misura e invitando altri gruppi di ricerca a verificare in modo indipendente il risultato. Ma all’esterno ormai la situazione era fuori controllo: il ministro in carica dell’istruzione, università e ricerca Mariastella Gelmini si rese protagonista di una gaffe passata ormai alla storia, facendo riferimento in un comunicato a un inesistente tunnel che collegherebbe il CERN di Ginevra ai Laboratori del Gran Sasso e che avrebbe reso possibile lo spostamento dei neutrini.
Ben presto, l’eccitazione iniziale lasciò spazio all’attesa di una conferma definitiva. Ma dopo qualche mese, il 23 febbraio 2012, arrivò la doccia fredda. I ricercatori comunicarono che le misure di velocità dei neutrini erano state probabilmente influenzate da due errori sistematici: una cattiva sincronizzazione degli orologi atomici utilizzati per misurare il tempo di volo dei neutrini e un connettore di una fibra ottica non perfettamente avvitato. La parola fine arrivò il 16 marzo, quando l’esperimento ICARUS, sempre di stanza al Gran Sasso, presentò nuove misure della velocità dei neutrini provenienti dal CERN. Il risultato era chiaro: i neutrini non viaggiavano a una velocità superiore a quella della luce.
Il caso ha rappresentato un ottimo esempio di come i tempi della scienza possano a volte essere scavalcati e addirittura dettati dai ben più rapidi tempi della comunicazione. I ricercatori di OPERA e i loro uffici comunicazione, messi all’angolo dall’improvvida uscita pubblica di Zichichi e dalle inevitabili conseguenze della diffusione di una notizia di tale portata, non hanno avuto la capacità di gestire la pressione, perdendo il controllo sulla comunicazione di una scoperta che avrebbe meritato ulteriori verifiche.
Ma circa due anni dopo (con in mezzo la scoperta, questa volta vera, del bosone di Higgs), ecco arrivare un altro annuncio di grande portata. In una conferenza stampa presso l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics i ricercatori dell’esperimento BICEP2, attivo in Antartide tra il 2010 e il 2012, comunicarono in pompa magna di aver misurato l’“impronta” delle cosiddette onde gravitazionali primordiali – prodotte nei primissimi istanti di vita dell’Universo – sulla radiazione cosmica di fondo, ossia ciò che resta della “prima luce” proveniente dal Big Bang.
Le primissime reazioni all’interno della comunità scientifica furono di grande entusiasmo. La sicurezza con cui i ricercatori di BICEP2 avevano presentato i loro dati, corredati anche da un alto valore di significatività statistica, venne considerato un elemento di attendibilità molto forte. Tuttavia, superato l’entusiasmo iniziale, nella comunità scientifica c’era comunque la consapevolezza che i risultati dell’esperimento avrebbero dovuto ricevere una conferma indipendente, e alcuni scienziati del settore cominciarono timidamente ad avanzare qualche perplessità sulla reale solidità della scoperta.
Due mesi dopo cominciarono a emergere particolari che mettevano in forte dubbio il rigore dell’analisi dei dati. I ricercatori di BICEP2, infatti, ammisero di aver utilizzato come base per la discussione dei risultati una mappa della radiazione cosmica di fondo elaborata dal satellite Planck dell’Agenzia spaziale europea. La mappa, però, non era ancora stata pubblicata ed era quindi in forma di bozza, tanto che i fisici di BICEP2 la presero da una diapositiva apparsa durante una conferenza. Un modo di procedere decisamente irrituale e ben poco rigoroso, oltre che scorretto.
Nel frattempo, erano ormai in molti ad avanzare l’ipotesi che gli effetti osservati sulla radiazione di fondo non fossero dovuti a onde gravitazionali primordiali, ma alla contaminazione da parte di semplici polveri interstellari. L’epilogo della vicenda arrivò il 9 marzo 2015, quasi un anno esatto dopo l’annuncio, quando la rivista Physical Review Letters pubblicò un articolo in cui i dati osservati da BICEP2 vennero confrontati con quelli del satellite Planck e del telescopio Keck, alle isole Hawaii. Lo studio concluse che non c’era alcuna prova della presenza di onde gravitazionali primordiali nelle osservazioni di BICEP2, confermando l’ipotesi secondo cui l’origine delle “anomalie” osservate nella radiazione di fondo era da imputarsi all’interferenza da polveri. Finì molto male, insomma, per i fisici di BICEP2, che a causa di superficialità e impazienza rimediarono una brutta figura sicuramente evitabile.
In tempi ancora più recenti non sono mancati altri casi spinosi. Uno di questi ha visto protagonisti i ricercatori degli esperimenti ATLAS e CMS del CERN (gli stessi che scoprirono il bosone di Higgs), che nel dicembre 2015 annunciarono – in verità con molta prudenza – la possibile scoperta di una nuova particella elementare non prevista dai modelli teorici. Anche in questo caso, qualche mese dopo, arrivò una smentita: l’osservazione era dovuta in realtà a una semplice fluttuazione statistica. Tuttavia, nei mesi intercorsi tra l’annuncio della possibile scoperta e la smentita i fisici teorici si scatenarono nel pubblicare improbabili articoli di ricerca che tentavano di spiegare la scoperta (un “fenomeno” già osservato in occasione del caso dei neutrini). Una folle corsa ad “arrivare primi”, guidata dall’ambizione, che ha sacrificato la doverosa attesa di una conferma sperimentale.
Anche quando la scoperta è reale, poi, possono non mancare le “grane” per i ricercatori. Ne è un perfetto esempio la scoperta delle onde gravitazionali, annunciata nel febbraio 2016, che se da un lato è stato un caso virtuoso dal punto di vista scientifico, dall’altro ha visto materializzarsi un altro problema di grande attualità che riguarda anche la scienza: le fughe di notizie sui social. La notizia della scoperta, infatti, è stata anticipata nei mesi precedenti l’annuncio – con dettagli anche molto precisi – da scienziati non coinvolti direttamente nell’esperimento, che hanno diffuso rumors prevalentemente su Twitter. Tra questi il cosmologo americano Lawrence Krauss, che addirittura twittò il primo rumor sulla scoperta nel settembre 2015, pochi giorni dopo l’osservazione del segnale da parte dei rivelatori. Con l’effetto di creare non pochi problemi ai ricercatori impegnati nell’analisi della possibile scoperta, costretti a dover fronteggiare una forte pressione in un momento molto delicato del loro lavoro.
In conclusione, i casi appena descritti impongono una seria riflessione sul rapporto tra scienza e comunicazione nei nostri tempi. Una riflessione che deve coinvolgere tutti: in primis, i ricercatori impegnati in prima persona negli esperimenti, che a volte si fanno tradire dalla fretta o dall’ambizione, a danno del rigore scientifico. Ma anche gli scienziati “esterni”, che spesso sono al corrente delle ricerche dei colleghi pur non essendo direttamente coinvolti (come Zichichi e Krauss) e non resistono a “spifferare” in giro notizie o rumor che dovrebbero restare riservati. Per arrivare anche alla stampa, che, a volte, rompe in anticipo il vincolo di riservatezza – il cosiddetto “embargo” – sulla diffusione di notizie ricevute in anteprima (negli ultimi tempi non sono mancati anche casi di questo tipo, che hanno coinvolto testate italiane).
Spesso è oggettivamente difficile poter prevenire questi casi, specie quando nascono dall’iniziativa di un singolo, ma una cosa è certa: si tratta di un problema non più trascurabile. Nell’epoca della Big Science, con esperimenti molto costosi e che coinvolgono a volte migliaia di ricercatori in tutto il mondo, è di fondamentale importanza curare con grande attenzione non solo gli aspetti scientifici, ma anche tutto ciò che ruota attorno alla comunicazione. Per non rischiare che vada tutto all’aria per colpa di un tweet.