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Ormai è assodato: gli oceani non se la passano affatto bene. Devono affrontare l’aumento delle temperature, il sovra-sfruttamento dell’80% degli stock ittici e anche l’inquinamento di vario genere. Primo tra tutti quello dovuto allo sversamento di plastiche e microplastiche in mare. Ma sotto la superficie, si nasconde un altro problema molto serio. Gli oceani sono a corto di ossigeno: stanno letteralmente soffocando. E a soffrire di questa “mancanza d’aria” è, a cascata, tutto l’ecosistema marino.

La quantità di ossigeno disciolto in mare, infatti, è uno dei valori da considerare per valutare lo stato di salute dell’oceano. Ed è anche vero che la sua concentrazione nella colonna d’acqua varia in funzione della profondità (quindi della pressione) e della temperatura. Dai 200 metri di profondità in poi, quindi, la quantità di ossigeno disciolto inizia a diminuire, fino a raggiungere il livello minimo verso i 1000 metri. Di conseguenza, esistono già naturalmente delle aree degli oceani in cui l’ossigeno disciolto in acqua è fortemente ridotto, se non del tutto assente. Sono le dead zone o zone morte, conosciute anche come zone a ossigenazione minima (OMZ). Ora però, per una serie di cause attribuibili all’uomo, il poco ossigeno presente in queste aree marine sta diminuendo ancora di più. E come se non bastasse alcune zone morte si stanno espandendo o addirittura ne sono nate di nuove. Ma a preoccupare, come al solito, è soprattutto la velocità con cui avanza il fenomeno.

Infatti, secondo uno studio pubblicato da poco su Science, negli ultimi 70 anni queste zone morte si sarebbero allargate, guadagnando milioni di chilometri quadrati. Se all’inizio degli anni 2000 erano appena un centinaio in tutto il mondo, oggi sono diventate più di 400. A scoprirlo è stato il team di scienziati del GO2NE, il Global Ocean Oxygen Network, guidato dallo Smithsonian Environmental Research Center, che ha monitorato il numero e la dimensione di queste dead zone dal 1950. E il risultato non è per niente incoraggiante. Negli oceani aperti le zone morte si sono quadruplicate. Mentre nelle acque costiere il bilancio è ancora peggiore: qui si sono addirittura decuplicate.

Dello stesso avviso sono i ricercatori del Georgia Institute of Technology. Secondo il loro ultimo studio pubblicato su Geophysical Research Letters, la quantità di ossigeno disciolto negli oceani starebbe colando a picco da oltre 20 anni. La vertiginosa discesa sarebbe iniziata negli anni ’80, proprio in corrispondenza dell’aumentare delle temperature. Infatti, il principale indiziato di tutta questa storia, ancora una volta, è il climate change. E quindi, indirettamente, l’uomo.

Che l’aumento delle temperature prima o poi avrebbe influenzato la quantità di ossigeno disciolto negli oceani (in base a una semplice regola fisica, secondo cui all’aumentare della temperatura dell’acqua diminuisce la quantità di ossigeno disciolto in essa) era prevedibile. Ma di certo non si immaginava quanto sarebbe stato veloce questo processo.

In effetti, soltanto analizzando i dati del World Ocean Database dal 1955 al 2015, il team americano si è reso conto che il trend con cui diminuisce l’ossigeno disciolto negli oceani è in realtà 2-3 volte più rapido di quanto previsto.

Una situazione grave, che si inasprisce sempre di più. Soprattutto lungo le coste del Pacifico settentrionale – dalle coste orientali dell’America del Nord a quelle nord-europee – a causa della circolazione oceanica e nella zona equatoriale, dove appunto la superficie del mare resta molto calda tutto l’anno.

Scienza e 2018 05maggio 04 Francesca Buoninconti2

Tra le zone più colpite dalla deossigenazione dei mari, come si vede dall’immagine, ci sono i mari chiusi o con ridotta circolazione, come il Mar Nero, il Golfo del Bengala e il Mar Arabico. E proprio qui si nasconde la dead zone più grande del mondo.

Incastonata tra Iran, Oman e Emirati Arabi la dead zone arabica copre un’area di oltre 165.000 chilometri quadrati. Insomma, per capirci, è vasta quasi quanto tutta la Florida e – soprattutto – comprende quasi tutto il Golfo dell’Oman, grande circa 180.000 chilometri quadrati in tutto. Il Golfo è ormai un malato terminale. L’agghiacciante scoperta arriva sempre dalle pagine di Geophysical Research Letters, stavolta grazie al lavoro dei ricercatori dell’University of East Anglia che, con mezzi sottomarini telecomandati a distanza, sono riusciti a verificare le condizioni ambientali della dead zone. Ma la situazione che si è delineata è peggiore di quanto temuto: l’area del Golfo ormai designata come morta, a partire dagli anni ’90, non solo è cresciuta a dismisura ma è diventata la più grande di tutte le dead zone conosciute. Ed è destinata ad espandersi ancora.

Tutta colpa dell’aumento delle temperature a causa del cambiamento climatico e di altre attività umane che stanno alterando la biochimica dell’oceano, provocando cambiamenti fondamentali nella disponibilità di nutrienti chiave. Acque più calde, infatti, trattengono meno ossigeno e impediscano che questo arrivi in profondità. Quindi l’aumento delle temperature rende difficile l’ossigenazione dei mari e provoca l’ampliamento delle zone morte, dove ormai l’ossigeno è troppo poco per essere in grado di sostenere gran parte della vita marina.

Con il caldo, però, mentre l’ossigeno scarseggia, il metabolismo degli organismi marini aumenta, costringendoli a respirare più velocemente e a consumare ossigeno più rapidamente. Alimentando così un beffardo circolo vizioso che porta rapidamente alla morte delle creature marine. Un danno enorme non solo per la biodiversità e l’ecosistema, ma anche per le attività economiche umane: dalla pesca al diving nelle aree marine. Barriere coralline comprese.

In realtà, in casi come quello del Golfo dell’Oman, la pesca locale potrebbe persino trarre beneficio dalla dead zone in aumento. Ma solo nel brevissimo termine. Questo perché i pesci potrebbero risalire più in superficie per rifugiarsi dalla mancanza di ossigeno. A lungo termine, però, queste condizioni anossiche porteranno al collasso dell’intero ecosistema, provocando danni sociali ed economici, oltre che ambientali.

Ai danni ambientali si aggiungono poi altri due aspetti inquietanti. Il primo è che circa metà dell’ossigeno che respiriamo proviene dagli oceani, che – insieme alle foreste – sono i polmoni del Pianeta. Se viene dunque a mancare o a ridursi drasticamente questo fondamentale contributo, saranno preoccupazioni ben più serie. Il secondo, invece, riguarda l’atmosfera e l’effetto serra. Quando l’ossigeno è assente, infatti, il ciclo dell’azoto viene alterato e in atmosfera viene liberato protossido di azoto: un gas a effetto serra che è circa 300 volte più potente del biossido di carbonio (l’anidride carbonica). Insomma si innesca un altro circolo vizioso che alimenta l’effetto serra e l’espansione delle zone morte.

A complicare le cose, lungo le coste, si aggiungono gli elementi chimici derivati dai fertilizzanti utilizzati nelle pratiche agricole: principalmente altro azoto e il fosforo. Elementi che poi finiscono immancabilmente in canali di raccolta e fiumi. Fino ad arrivare in mare, dove innescano la proliferazione di alghe microscopiche. Alghe che, non essendo consumate dai consumatori primari, si accumulano, muoiono e si decompongono, aumentando così il consumo dell’ossigeno disciolto, creando condizioni anossiche e determinando la morte di pesci e altri abitanti del mare. E infatti in uno dei mari più caldi e anossici, il Mar Arabico, sono state scoperte fioriture algali enormi, pari alle dimensioni del Messico.

Il fenomeno delle zone morte è dunque legato a doppio filo all’azione dell’uomo (come molti altri problemi ambientali del resto) e vede un intricato intrecciarsi di eventi a catena. Da un lato l’innalzamento delle temperature lascia “scappare” l’ossigeno, dall’altro le attività agricole e industriali aggravano la situazione, determinando eventi di eutrofizzazione lungo le coste.

Ma si può contrastare il fenomeno? Sì, le zone morte possono “resuscitare”. Possono tornare a guadagnare ossigeno, come è avvenuto in diversi casi. Il primo è quello che ha coinvolto la zona morta del Mar Nero (in precedenza la più grande del mondo), scomparsa in gran parte tra il 1991 e il 2001 quando, per motivi politici ed economici, i fertilizzanti divennero troppo costosi per essere utilizzati. Solo così, quasi per caso, si ridussero drasticamente gli effetti dell’eutrofizzazione, tanto che oggi la pesca è tornata ad essere una delle attività commerciali principali della zona.

Ma se la rinascita del Mar Nero per lo più non fu intenzionale, altri episodi hanno visto invece l’impegno dei politici. Dal 1985 al 2000, per esempio, l’azoto disciolto nella dead zone lungo le coste del Mare del Nord si è ridotto del 37% quando i Paesi del Reno hanno iniziato a ridurre e a controllare il rilascio di questo elemento da parte di attività agricole e industriali.

Così, proprio per arginare la crescita delle zone morte, nel 2016, è nato il su citato il GO2NE (Global Ocean Oxygen Network). Ma in buona sostanza, anche se le azioni locali possono contribuire a bloccare questa “fuga d’ossigeno”, solo uno sforzo globale potrebbe essere davvero d’aiuto. Ma la vera preoccupazione – e non solo secondo i membri del GO2NE – è che l’espansione e la nascita di nuove zone morte, e in generale la diminuzione dell’ossigeno negli oceani, non sono problemi prioritari per i governi. Non sono in agenda. E se a questo si aggiunge anche che il contrasto al cambiamento climatico vacilla e che al governo di uno dei maggiori produttori di gas serra c’è chi addirittura nega il climate change (il presidente Trump), la situazione non è incoraggiante. Ma bisogna iniziare a stabilire e a intraprendere delle azioni da subito, senza aspettare le gravi perdite delle industrie ittiche, quando ormai la situazione sarà compromessa e più difficile da gestire.


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