Ahi fragile Italia, di dolore ostello, /nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie, ma bordello!
Così si esprime Dante nell’incontro in Purgatorio con Sordello da Goito. Così? In realtà Dante non dice “fragile Italia”, ma “serva Italia”. Fatta questa doverosa precisazione il resto funziona perfettamente.
Perché l’Italia è un Paese dalla natura giovane e fragile e questa situazione è causa di dolore per i danni che possono derivarne a persone e cose dal verificarsi dei fenomeni che sono il frutto della naturale fragilità. Perché in questa grande tempesta di terremoti, alluvioni, frane e possibili eruzioni l’Italia si trova generalmente esposta anche in assenza, e soprattutto perché in assenza, di un nocchiero. E tralascio il resto.
Una cosa è certa che viviamo in un Paese a rischio.
C’è un rischio? I meno giovani ricorderanno che nel suo programma televisivo degli anni Settanta, Rischiatutto, il conduttore Mike Bongiorno era solito dire “c’è un rischio”… ma non era un rischio ambientale come quello che riguarda l’Italia. Il rischio ambientale ha varie componenti. Alcune, quelle legate ai fenomeni naturali che possono essere anche catastrofici e che per deresponsabilizzare l’uomo vengono chiamate calamità naturali, sono ormai sempre più note. Anche perché, non v’è quasi chi non possegga un computer ed essendo in grado di collegarsi con internet non possa, se vuole, chiedere ad un motore di ricerca, che cosa è un terremoto, un’eruzione, una frana, un’alluvione… Perciò non è particolarmente utile stare ad illustrane cause ed effetti. Meglio è concentrare, e indurre a concentrare, particolare attenzione ai rischi provocati da comportamenti umani scorretti e spesso irresponsabili, che già oggi e ancor più domani, in assenza di interventi rapidi capaci di bloccare queste tendenze e riparare i danni già arrecati e in assenza di un nocchiero, potranno compromettere la qualità della vita e la sicurezza dei cittadini. Insomma parlare di rischio con riferimento ai tanti fenomeni naturali o di origine umana di cui sono quasi quotidianamente piene le cronache giornalistiche a qualunque livello di comunicazione rese note, può essere scontato tanto da rendere poco utile ripetere cose già note o facilmente acquisibili, come dicevo, con un passaggio in internet. Perché l’importante è non solo conoscere il nome delle cose, ma le cose stesse e non solo le cose per strapparsi i capelli se sono pericolose, ma le cose per sapere come evitarle e difendersi. Perché di qualunque cosa si tratti se la si conosce la si evita. O, per lo meno, se ne riduce la pericolosità e si agevola la convivenza. Per questo motivo la conoscenza e la informazione sono se non il primo uno dei più importanti strumenti per risolvere i problemi della drammaticità di eventi naturali pericolosi. Tanto più oggi quando la ricerca scientifica e le applicazioni tecnologiche danno una mano a chi la tende.
Anche di questo si è parlato il 15 marzo alla Federico II con Giovanni Azzone intervistato da Ottavio Ragone responsabile della redazione napoletana di La Repubblica per discutere di Terremoti, eruzioni, frane e alluvioni: l’Italia, un Paese bello ma fragile.
Giovanni Azzone è professore di “Impresa e decisioni strategiche” al Politecnico di Milano del quale è anche stato Rettore dal 2010 al 2016. “Decisioni strategiche” sono due parole che aprono prospettive interessanti. Perché una volta preso atto che l’Italia è un Paese di ricorrente fragilità, non ci si può fermare al catalogo dei possibili disastri. Ma è indispensabile prendere “decisioni strategiche” che consentano innanzitutto di prevenire vittime e danni con opere pianificate nel tempo e nello spazio in modo da passare finalmente dalla “politica del cerotto” a quella della guarigione delle aree vulnerabili. Che significa almeno tutta la dorsale appenninica dalla Liguria al calabrese “sfasciume pendulo sul mare”, come Giustino Fortunato definiva la parte terminale di quella regione.
Poiché questo compito, con costi anche economicamente elevati, coinvolge la più ampia percentuale dei residenti è importante che tutti siano capillarmente informati. Innanzitutto da chi propone agli esecutori decisioni strategiche. Perché uno scienziato, un geologo, un sismologo, un vulcanologo non devono solo dire che cosa sono una frana, un’alluvione, un terremoto un’eruzione vulcanica e in che cosa consiste il rischio. Devono anche impegnarsi a dire che cosa fare. Cioè aiutare ad informare correttamente e indicare le possibili soluzioni, le eventuali alternative sino ad arrivare al non facile concetto di rischio accettabile.
Un concetto la cui evidente delicatezza (come si può accettare l’esistenza di un rischio con tutti i guai che può comportare?) diventa condivisibile se le persone coinvolte hanno precisa la percezione dei fenomeni di cui si parla e i cui danni si proporne di prevenire il più possibile.
Ma se non tutti gli eventi ciascuno li può percepire sulla propria pelle e, di conseguenza, come si dice a Napoli il sazio non crede al digiuno, qualcuno deve svolgere questo compito. Qualcuno che per il ruolo di scienziato e per la veste di politico che indossa abbia credibilità sufficiente a portare a compimento la missione.
In questo contesto la regione più rappresentativa è la Campania che non si fa mancare niente in termini di esposizione ai rischi più pericolosi: sismico, vulcanico e idrogeologico. Quindi la percezione dovrebbe essere massima. Invece è legata solo ad eventi vissuti e magari sofferti, non anche a quelli legati al ricordo di eventi passati e devastanti come, per esempio il terremoto del 23 novembre 1980 e l’eruzione del Vesuvio del 18 marzo 1944 e giorni seguenti. Salvo a precipitarsi in strada quando una scossa di magnitudo 2,4 nei Campi Flegrei fa oscillare qualche lampadario.
Dunque, come ha detto Giovanni Azzone a Bianca De Fazio di La Repubblica, serve consapevolezza dei rischi perché «una consapevolezza diffusa vuol dire fare le cose giuste per minimizzare le conseguenze negative». Aggiungendo l’invito alle istituzioni perché «facciano aprire gli occhi alle persone». Ricordando, tra l’altro, che in Campania sono ben 70.000 «gli edifici potenzialmente pericolosi dal punto di vista della stabilità». Un dato che richiede interventi rapidi ed efficaci. I quali – ha concluso il professore parlandone con Bianca De Fazio – «hanno un effetto moltiplicatore su un settore strutturalmente in crisi come l’edilizia».
Dati generalmente sconfortanti sono, dunque, quelli che riguardano la vivibilità dell’ambiente e la sicurezza del territorio. In molti casi tali da incidere negativamente sulla qualità della vita dei cittadini.
L’ennesima conferma è venuta dall’annuale rapporto dell’ISPRA nel quale una situazione emerge in modo più preoccupante ed è il consumo di suolo. Un consumo che procede al ritmo di poco meno di tre metri quadrati al secondo e che consente di valutare in 23.000 chilometri quadrati la quantità di territorio persa per cementificazione.
Consumo di suolo, tanto per intenderci, significa sottrazione di superfici agricole, forestali, naturali e semi-naturali per destinarle ad edifici, strade, parcheggi, aeroporti, impianti industriali, commerciali, turistici e sportivi. Bisogna anche dire che la rapidità del consumo tende a rallentare. Tuttavia «pur con una velocità ridotta il consumo di suolo continua a coprire irreversibilmente aree naturali e agricole con asfalto e cemento, edifici e fabbricati, strade e altre infrastrutture, insediamenti commerciali, produttivi e di servizio, anche attraverso l’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità». Le aree più colpite sono le pianure del Settentrione, dell’asse toscano tra Firenze e Pisa, del Lazio, della Campania e del Salento, delle fasce costiere, in particolare di quelle adriatica, ligure, campana e siciliana e le principali aree metropolitane (Michele Munafò e Lorenzo Ciccarese, Uso e abuso del suolo, in Scienza in rete del 19 luglio 2017).
Se il suolo, il suo consumo con tutto quello che significa anche in perdita di ecosistemi, costituisce un problema, altri l’ISPRA ne documenta nel suo Rapporto: nell’inquinamento atmosferico; nella qualità delle acque interne (fiumi e laghi); nello smaltimento dei rifiuti; nella perdita di biodiversità di animali e piante.
Per questo insieme di risultati, come ha dichiarato Alessandro Bratti direttore generale dell’ISPRA, questo lavoro «si conferma uno strumento fondamentale per l’adozione di politiche sostenibili e per la diffusione di una più consapevole cultura dell’ambiente. Non può esistere sviluppo economico che non preservi e tuteli il territorio».
Se uniamo questo auspicio a quello ricavabile dagli argomenti che citavo dalla conversazione di Giovanni Azzone alla Federico II e alla conseguente importanza di “decisioni strategiche” è facile individuare quale debba essere la strada da seguire per avviarsi ad uscire dal tunnel del rischio incombente.
Ma resta un altro non facile problema: la sostanziale ignoranza o scarso interesse di questi problemi da parte dei candidati a governare il Paese alla cui guida sono stati eletti il 4 marzo 2018. Come ineccepibilmente dimostra l’assenza di promesse e proposte per queste vitali tematiche nel corso della campagna preelettorale.
Di conseguenza resta ancora una volta il valore del grido che, insieme con Dante, lanciavo all’inizio per il dolore e il disappunto di continuare a stare in una nave in gran tempesta senza nocchiero e perciò luogo di sofferenze. Con tutto quello che segue.