4 miliardi, di euro, secondo il capo della Protezione civile calabrese, sono la spesa necessaria per mettere in sicurezza la Calabria. Quella parte dell’Italia che Giustino Fortunato nel 1904 definiva uno sfasciume pendulo sul mare.
4 miliardi? E che sono? Molto meno di un vano reddito di cittadinanza. Sono una spesa di investimento utilizzabile per far lavorare imprese e persone e per dare ai calabresi un territorio sicuro almeno per quanto riguarda alluvioni, frane e smottamenti. Forse anche terremoti. Sono soldi moralmente spesi, mentre immorale è non spenderli per prevenire tutto questo, ma tirarli doverosamente fuori a danno avvenuto, dopo aver fatto il calcolo economico (mai anche quello sociale) e aver contato i morti. Morti come quella povera mamma che cercava di mettersi in salvo con i due bambini, morendo con loro travolta dalla violenza delle acque. Acque non solo piovute dal cielo, ma armate di violenza dalla mano umana. Perché la Calabria non è proprio una terra di grandi fiumi, ma di torrenti sì e di fiumare. E i fiumi hanno un carattere prevalentemente torrentizio quando la pioggia riempiendoli di acqua li fa velocemente scorrere nelle piane sottostanti monti e colline.
Il 20 agosto scorso fu il caso del torrente Raganello nella provincia di Cosenza con 11 morti fra gli escursionisti che facevano rafting (discesa fluviale su gommone). In questi primi giorni di ottobre è toccato alla provincia di Lamezia. Ma l’intera Calabria è stata coinvolta: i fiumi Esaro, Neto e Tacina, Il torrente Umbro gonfiati dalle piogge, sono esondati in alcuni punti. Scaricando acqua e materiali al di fuori di quelli che una volta erano gli argini.
La Calabria è “ricca” di episodi del genere. Se non se ne avesse il ricordo basterebbe andare in un’emeroteca e sfogliare le pagine dei quotidiani. Bastano quelle di inizio autunno per fare un elenco di casi simili a questo. Né solo in Calabria. Tutto l’Appennino ne è coinvolto e lo è sempre più via via che lo “stivale”, passando dalla coscia alla punta, occupa superfici maggiori di territorio: Campania, Basilicata e Calabria, in modo particolare.
Naturalmente, come la legge consente, la drammaticità della situazione ha spinto il governatore Mario Oliverio ad annunciare l’immediata richiesta al Governo della dichiarazione dello stato di calamità naturale. La pioggia è certamente una manifestazione della natura; una pioggia che accumula in poche ore tanta acqua quanta abitualmente ne fa in tre mesi è un evento eccezionale. Ma solo qualche geografo superstite e i geologi della Protezione civile sanno come è fatta la Calabria? Se gli amministratori della cosa pubblica colpevolmente non lo sapessero potrebbero andare a lezione prima di chiamare “calamità” un evento naturale catastrofico.
Che fare, dunque? Innanzitutto liberare i torrenti a secco per buona parte dell’anno ma pronti a riempirsi d’acque e tracimare ogni volta che piogge di più o meno inaspettata intensità trasportano con la loro violenze tutte le porcherie che lungo il percorso hanno intasato il naturale scorrimento delle acque.
«Nel 2018 non possiamo più permetterci che persone muoiano per colpa del cattivo tempo, un pensiero a tutti i calabresi colpiti da questo tremendo nubifragio e una preghiera», ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Un pensiero? Una preghiera?
Una preghiera di “suffragio” per i morti e di aiuto “morale” alle persone sfollate fa parte della carità cristiana. Ma un pensiero non basta. Un pensiero è un mazzo di fiori portato ad una festa. Qui occorrono i quattro miliardi che ricordavo all’inizio.
Da dove prenderli? Come quotidianamente ci dicono i due vice primi ministro e primo ministro del Governo in carica, questo è l’ultimo dei problemi. E magari l’anno prossimo si potrebbero guadagnare il Premio Nobel per l’economia come è avvenuto quest’anno ai due economisti americani William Nordhaus e Paul Romer per le loro ricerche sui rapporti tra cambiamenti climatici, innovazione tecnologica e andamenti macroeconomici.