Il 13 marzo del 1917, Cocteau scriveva alla madre (e ‘a mamma è semp ‘a mamma): «Siamo di nuovo a Roma dopo un viaggio a Napoli, e da lì a Pompei in auto. Credo che nessuna città al mondo possa piacermi più di Napoli. L’Antichità classica brulica, nuova di zecca, in questa Montmartre araba, in questo enorme disordine di una kermesse che non ha mai sosta. Il cibo, Dio e la fornicazione, ecco i moventi di questo popolo romanzesco. Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo. Il mare è blu scuro. Scaglia giacinti sui marciapiedi».
È con queste motivazioni che Cocteau invitò Picasso a venire a Napoli. Ma Picasso preferì restare a Roma, rispondendogli: «Sto bene a Roma, e poi c’è il Papa». E, di rimando, Cocteau gli rispose: «Sì è vero, a Roma c’è il Papa, ma a Napoli c’è Dio».
Poiché Napoli è anche il Vesuvio, Cocteau ci ha lasciato anche un “penna e inchiostro acquarellato” intitolato Siloca. È un disegno intrigante quel Vesuvio disegnato nel 1917, cioè 11 anni dopo la tremenda eruzione del 1906, perché sembra un'immagine di oggi. Rappresenta, infatti, il vulcano (allora fumante) sullo sfondo di una serie di palazzoni con la scritta SILOCA.
Verosimilmente Cocteau con questo inchiostro acquerellato non intendeva rappresentare l'odierna preoccupazione per l'esagerata e pericolosa proliferazione di costruzioni alle falde e anche più su dello “sterminator Vesevo”.
Ma la sua è, inconsapevolmente, un'immagine profetica. E mi ha indotto a chiedermi quanta gente, all’epoca, risiedeva in quei comuni. Contestualizzando il “Siloca” di Cocteau al 1917 ho provato a dare una risposta limitandomi a concentrare il calcolo dei residenti ai 18 comuni che la Protezione Civile nel 1995 aveva inserito nel primo piano di evacuazione. Ebbene nel 1911 vi risiedevano 179.437 persone con una punta massima a Torre del Greco (39.523 residenti) e minima a Massa di Somma (1.002).
Così stavano le cose quando Cocteau le dipinse. Oggi i comuni entrati nell'ultimo piano della Protezione Civile sono diventati 25 e ad essi si sono aggiunti due quartieri di Napoli Est. La popolazione che vi risiede supera di poco le 700.000 unità e le abitazioni che le ospitano sono un insieme di palazzi uno addossato all'altro senza soluzione di continuità. È quella «corona di spine che cinge Napoli» di cui ha scritto nel 1902 Francesco Saverio Nitti, costituita da una «serie ininterrotta di case che da Napoli a Torre del Greco assume nomi di paesi differenti». Quella corona di spine oggi si spinge oltre Torre del Greco e costituisce un enorme addensamento edilizio e demografico frutto anche di gravi manomissioni ambientali. Tanto più gravi in quanto avvenute in aree di straordinario interesse naturalistico e di eccezionale addensamento di prodotti della cultura materiale sedimentati e accumulati in oltre 2000 anni di storia e civiltà.
Quando Francesco Saverio Nitti descrisse la corona di spine che cinge Napoli non sapeva né immaginava l'effetto che quella distesa di case che si dilunga senza soluzione di continuità ai piedi del Vesuvio e prende nomi diversi avrebbe fatto su Tuiavii saggio capo indigeno delle isole Samoa. Per saperne di più, utilmente di più, su Tuiavii e sul suo discorso che, dato in appunti al suo amico Erich Scheurmann cui consentì la traduzione in tedesco come lo stesso Scheurmann riferisce nella prefazione scritta a Horn in Baden nel 1920; per saperne di più, dicevo, il consiglio è la lettura di Papalagi. Discorso del capo Tuiavii di Tiavea delle isole Samoa pubblicato nel 1998 da Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri per la traduzione di Arabella Beatrice Festa e ora (2018) alla 19ma ristampa.
Tuiavii, di ritorno da un viaggio in Europa agli inizi del Novecento, parlava ai suoi popolani descrivendo usi e costumi dell’uomo bianco chiamato Papalagi.
Tra l’altro ne descriveva il modo di costruire abitazioni (definiti cassoni di pietra) e di abitarvi: «Questi cassoni di pietra stanno numerosi l’uno addosso all’altro, non li separa nessun albero, nessun cespuglio, stanno come le persone gomito a gomito, e in ognuno vivono tanti Papalagi quanti in un villaggio delle Samoa. A un tiro di pietra, sulla parte opposta, c’è un’identica fila di cassoni di pietra, di nuovo gomito a gomito, e anche questi sono abitati. E così tra le due file c’è una stretta fessura che il Papalagi chiama “strada”… si può vagare per giorni tra queste fessure per riuscire a trovare una foresta o un grande pezzo azzurro di cielo».
Certo Tuiavii non si riferiva ai comuni del vesuviano, ma quando scriveva del modo di vivere e costruire abitazioni e di vivervi da parte del Papalagi, sembrava proprio avere sotto gli occhi quelle case e i suoi abitanti.
Più verosimilmente altre città d’Europa avevano ispirato i suoi commenti, ma il prodotto non cambia.
Naturalmente non si tratta di invidiare il modo di vivere in capanne dei samoani. Culture e civiltà diverse hanno differenti modi di vivere. L’importante è rispettare e non irridere quelli degli altri. E lo sottolinea perfettamente Tuiavii quando dice ai suoi: «Concediamo al Papalagi la sua dubbia felicità, ma distruggiamo ogni suo tentativo di innalzare cassoni di pietra sui nostri lidi assolati e impediamogli di uccidere la gioia di vivere con pietre, fessure, sporcizia, rumore, fumo e sabbia, come è sua intenzione e mira».
Intelligenza, sensibilità e prudenza vorrebbero che questo invito a bloccare i tentativi di innalzare cassoni di pietra dovunque il Papalagi ritenga gli faccia comodo farlo, vada al di là delle isole Samoa e di lidi assolati.
Non solo, ma che venga colto anche nell’avvertimento mirante a distruggere quei tentativi e, dove non si fosse arrivati in tempo per farlo, mirante ad intervenire per distruggere il malfatto.
Un’operazione che all’epoca in cui Tuiavii parlava – quale che fosse l’area topografica di riferimento – non aveva ancora i significati attuali che (almeno in Italia) ruotano intorno a due parole: condoni e abbattimenti. Due parole che individuano due comportamenti dei gestori della cosa pubblica (condoni/no, abbattimenti/sì) che oggi soprattutto in Campania, capofila delle regioni nella graduatoria dell’abusivismo edilizio dovrebbero diventare una regola di vita.