Non sono pochi i risultati ottenuti dalle centinaia di migliaia di ragazzi che hanno manifestato nelle piazze di oltre 70 Paesi della Terra, Italia compresa, da venerdì 15 marzo. Ma uno è alla base di tutti ed è tale da far conoscere tutti gli altri: tutta la stampa e l’informazione di qualunque altro tipo – favorevole o contraria – ne ha dato notizia. Non solo. Perché molti mezzi di informazione –condividendone o meno l’importanza – hanno passato all’esame il problema dei mutamenti climatici e della qualità dell’ambiente in genere.
Bene. Questa è una parte di quanto i ragazzi volevano, ma non è tale da risolvere un problema che per essere affrontato e portato alla non impossibile soluzione, va impostato nei giusti termini: realisticamente e senza alimentare illusioni.
Realisticamente, ma non in modo preconcetto e scarsamente motivato scientificamente. Di questa posizione in Italia è capofila Il foglio, trascurando di prendere in considerazione il modo piuttosto “becero” con cui liquidano l’argomento altri di questa schiera (La verità, Il giornale, Libero in modo particolare).
Il foglio, dicevo, lo ha fatto il 18 marzo 2019 in un articolo di Alberto Brambilla Verde alors! che già nel sommarietto chiarisce la posizione: «Dimenticate il modello Greta. La protesta “green” si nutre di catastrofismo ma non offre soluzioni praticabili. Il caso italiano e l’ambientalismo sconfitto dall’ideologia della decrescita. Perché senza sviluppo non si governa nemmeno l’inquinamento. Vaccini e spazi politici possibili. Un’inchiesta». Nel testo si fa un elenco delle “menzogne” alla base del movimento e dei suoi più o meno occulti manovratori.
Ricordando, tra l’altro, sul modello di un antico avvertimento dell’ENEL, il rischio di restare senza corrente elettrica “Se per ipotesi la produzione di energia dovesse essere rimpiazzata immediatamente da eolico e solare”. Di conseguenza “la catastrofe sarebbe davvero immediata”.
Insomma la sostanziale conclusione è che la protesta di cui si sta parlando «si nutre di catastrofismo (“siamo in emergenza”) ma non offre soluzioni praticabili (“fate qualcosa!)». Un “fate qualcosa” a sostegno della cui vacuità Brambilla ricorre a quanto affermato dal presidente della Associazione nucleare italiana Umberto Minopoli: «Sono trent’anni che si fa questa denuncia e se davvero siamo in uno stallo come dice il paradigma degli ambientalisti da fine del mondo, con le emissioni carbonifere che non diminuiscono e l’allarmismo che cresce, è perché si è sempre detto che “si dovrebbe fare qualcosa” anziché intraprendere azioni concrete».
Pretendere che centinaia di migliaia di ragazzi, o anche la sola Greta che viene ritenuta la animatrice del movimento, debbano indicare soluzioni “praticabili” mi sembra solo un modo di comodo per svuotare di valore la manifestazione. La verità è che questi ragazzi hanno detto che la Terra che gli stiamo passando sta diventando difficilmente vivibile e che bisogna intervenire prima che sia troppo tardi. E che potrebbe essere tardi lo dicono da anni studiosi di questi problemi (oltre il 90% di quanti affrontano scientificamente il tema dei mutamenti climatici) che non mi risulta siano costruttori di pale eoliche o di tetti fotovoltaici. E lo hanno detto in modo così preciso e coinvolgente che i rappresentanti di 195 Paesi riuniti a Parigi a dicembre del 2015 hanno firmato un accordo col quale si impegnano a ridurre le emissioni inquinanti in atmosfera in modo da limitare l’aumento delle temperature a non più di 1,5/2 gradi centigradi. Tutto entro dicembre del 2100. Quindi un tempo se lo sono dato: sono gli 85 anni che vanno dal 2015 al 2100. Ce la faranno? Pochi di quanti oggi ne parlano potranno constatarlo.
Ma alcune cose sono prevedibili. Difficilmente quel risultato sarà raggiunto, ma anche se fosse ottenuto il rallentamento dell’aumento delle temperature, una giusta certezza bisogna darla a figli, nipoti, pronipoti, giovani amici che manifestano: la Terra nella quale vivranno non sarà più la stessa.
Cioè non è immaginabile che torni allo stato in cui era (la resilienza), e le modifiche che vi saranno richiederanno un possibile, necessario e non drammatico, adattamento. Non tutti se lo potranno consentire e se mai si dovesse registrare la temuta estinzione del genere umano, questa riguarderà i più poveri, deboli ed emarginati. Da qui il sacrosanto invito di Greta a combattere le disuguaglianze.
Parliamo di Terra. Ma il pianeta è un “villaggio globale” di cui ogni Paese, ogni città, ogni amministratore, ogni cittadino è un protagonista. Napoli per esempio.
Come potrebbe trasformarsi entro fine secolo? Come ci si potrebbe adattare per vivervi nel miglior modo possibile? Che cosa si potrebbe cominciare a ipotizzare e realizzare da subito? E se quelle “soluzioni praticabili” che mancano nella protesta dei giovani i prossimi sfidanti le mettessero già da oggi nei programmi elettorali? Circolare sempre meno in automobile; climatizzare gli ambienti chiusi (case, scuole, uffici, ospedali) sempre più con tetti fotovoltaici; produrre sempre meno rifiuti; abbattere gli sprechi… sono soluzioni. Il modo di renderle praticabili va individuato da chi amministra la res publica.
Ma il mutamento climatico non è solo un problema (?)
Mi ci fanno pensare i risultati della Prima tappa di “Qualità della vita. Progetto 2019” pubblicati dal Sole 24 ore il 25 marzo 2019 (L’Italia sempre più calda: record nel 2018). In questi risultati vi si può leggere un correttivo – per quanto parziale – delle analisi di fine anno sulla qualità della vita.
La ricerca è stata condotta dall’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con l’Università di Milano. Dai dati messi insieme risulta che dal 1800 ad oggi la temperatura in Italia è aumentata mediamente di 2,3 gradi centigradi. Risultato di un incremento massiccio soprattutto dal 1980 da quando, cioè, la temperatura è aumentata di mezzo grado ogni dieci anni.
Non c’è dubbio che ciò stia accadendo a causa della sempre più elevata concentrazione di anidride carbonica in atmosfera e che, con buona pace del negazionismo, questo avviene per mano umana. L’Italia che sta nel Mediterraneo che è un’area terrestre che più di altre risente del riscaldamento globale, ne patisce gli effetti anche più di altri Paesi.
Questi, molto sinteticamente, i contenuti dell’importante ricerca alla quale facevo riferimento. Ma Il Sole riporta anche i risultati di quella che definisce la meteo-parade. Una classifica, cioè, nella quale vengono messe in graduatoria tutte le città. Ebbene ce l’abbiamo fatta: il Mezzogiorno ne esce vincitore e tra le grandi città Napoli, quarantatreesima, si classifica prima di Torino e Milano.
Per questo dicevo che questi risultati sono quasi un parziale correttivo delle sconfortanti analisi di fine d’anno che classificano tutto il Mezzogiorno agli ultimi posti per la qualità della vita. Ebbene se siamo d’accordo con quanto scrivono Marta Casadei e Michela Finizio (Imperia e il Sud vincono la classifica del tempo migliore, 25 marzo 2019) «il clima ha una forte influenza sulla qualità e sullo stile di vita delle persone che abitano in un territorio. E in Italia ci sono pochi dubbi: dal punto di vista climatico, le coste battono le zone interne. I dati, dunque, confermano ciò che gli esseri umani fanno ormai da anni: spostarsi al mare, per godere del sole, sfuggire alla canicola delle città padane, sciogliere i muscoli irrigiditi dal freddo».
Se siamo d’accordo con quanto riportato, la qualità della vita da Napoli in giù è migliore almeno per quanto riguarda l’aria che vi si respira, la brezza estiva «che permette lunghi sonni senza accendere i condizionatori» e la presenza di ore di sole (è sempre Il Sole che lo scrive) che «rendono possibili passeggiate all’aperto».
Certo questa è solo la prima tappa di un itinerario sulla qualità della vita nelle province italiane che Il Sole conduce da trent’anni. Sappiamo bene come andrà a finire a dicembre di quest’anno. Ma intanto un punto è stato messo a segno: «Basta ca ce sta ‘o sole, ca c’è rimasto ‘o mare».