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Un importante articolo di Richard T.T. Forman e Jianguo Wu pubblicato su Nature del 28 settembre 2016 e riproposto da Le scienze il successivo 12 ottobre (Dove mettere il prossimo miliardo di persone) già un anno fa si poneva il problema dello spazio in un pianeta finito, cioè non incrementabile, come la Terra.

In particolare, dato per abbastanza scontato che entro il 2030 la popolazione della Terra aumenterà di un miliardo e cento milioni di persone, gli autori si chiedevano quale impatto questo incremento potrà avere sullo spazio. E su uno spazio che ormai dall’inizio del secolo tende ad essere sempre più quello urbano dal momento che, invertendo una multimillenaria tendenza, la popolazione terrestre ha cominciato a vivere sempre più numerosa nelle città.

In questo modo si calcola che ne risentiranno negativamente sette aspetti (i “big seven”) delle città: la vegetazione naturale, i terreni agricoli, l’acqua potabile, il lavoro, le abitazioni, i trasporti, la comunità.

Innanzitutto l’agricoltura che non solo cede sempre più spazio all’espansione urbana, ma deve far fronte anche alla crescente aridità dei suoli provocata dai mutamenti climatici.

Questa seconda preoccupazione si basa sulla previsione che il 20-30 per cento della superficie terrestre diventerà più arido, sarà oggetto di ricorrenti incendi e di maggiore siccità se l'aumento della temperatura globale sarà di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. Mentre questi fenomeni saranno più contenuti se l'aumento di temperatura non supererà 1,5 gradi centigradi. Ne scrive su  Nature Climate Change (Keeping global warming within 1.5 °C constrains emergence of aridification pubblicato on line il 1° gennaio 2018), un gruppo di ricercatori della Southern University of Science and Technology (SUSTech) di Shenzhen, in Cina, e dell’University of East Anglia, nel Regno Unito.

Obiettivamente la differenza di appena 0,5 gradi può sembrare di pochissimo conto. Invece gli autori di questo studio sostengono che l’aridificazione che potrebbe riguardare sino al 30% delle terre emerse se le temperature globali aumenteranno di 2 gradi potrebbe non superare il 10% se l'aumento sarà contenuto in 1,5 gradi.

Motivo in più per auspicare che sia realizzato l’accordo firmato a Parigi nel dicembre del 2015 da 197 Paesi proprio per contenere in non più di 1,5 gradi l’incremento delle temperature della Terra. Perché l’aridificazione può avere un impatto gravemente negativo sull’agricoltura, sulla disponibilità di acqua potabile e può incrementare il rischio di incendi. E può essere contenuta solo contenendo il riscaldamento globale.

D’altra parte bisogna anche realisticamente prendere atto dei tempi non brevi per il raggiungimento degli obiettivi che gli accordi di Parigi pongono per la fine del XXI secolo.

Il che significa, come già rilevato nel mio precedente Resilienza, adattamento, informazione del 13 dicembre 2017, che «non c’è da immaginare un automatismo tra la riduzione della emissione di gas serra in atmosfera e il blocco degli eventi provocati dal mutamento del clima già in atto da tempo. Né è immaginabile che una volta raggiunto l’obiettivo tutto tornerà ad essere com’era cinquant’anni fa… Insomma ci avviamo a vivere su un pianeta diverso e questa diversità richiede un adattamento per vivere nel migliore dei modi possibile, nel migliore dei mondi possibile».

E adattarsi non significa rassegnarsi, ma anche cercare soluzioni alternative o integrative. Per esempio ciò di cui scrive Michela Mazzali (Gettare un seme per il cambiamento climatico) su Il manifesto del 4 gennaio 2018 quando indica la possibilità di interferire sui cambiamenti climatici tramite l’uso delle sementi e di utilizzare la biodiversità per combattere la fame nel mondo utilizzando modifiche nel “metodo produttivo”.

La proposta, che riguarda l’Italia ma è “esportabile”, è quella della “stesura di un nuovo Piano Nazionale per le sementi biologiche” allo scopo di “mettere a disposizione delle imprese materiale riproduttivo in qualità e in quantità adeguate”. E questa realizzazione che dovrebbe avvenire in quadro generale nel quale le grandi multinazionali della alimentazione hanno realizzato quella che Vandana Shyiva ha definito la “biopirateria”, sarebbe di enorme importanza “per un sano sviluppo del settore biologico”.

Oggi, malgrado l’aumento degli operatori bio, si registra una forte contrazione di sementi per l’agricoltura biologica. La Mazzali riferisce che la moltiplicazione di sementi con metodo bio è calata dai 10.600 ettari del 2009 a soli 7.500.

È per questi motivi che l’AIAB (Associazione Italiana Agricoltura Biologica) e ANABIO (Associazione Nazionale Agricoltura Biologica) si impegnano per ottenere un piano sementiero per l’agricoltura biologica.

Un passo avanti si è realizzato con il D.M. 24 febbraio 2017 che ha istituito una Banca Dati delle Sementi bio (BDS), dando anche le disposizioni per l’uso di sementi e materiale di moltiplicazione vegetativa non ottenuti con il metodo di produzione biologico. La BDS verrà resa disponibile sul Sistema informativo biologico (SIB) e conterrà l’elenco delle specie e varietà di sementi e/o di materiale di moltiplicazione vegetativa prodotti in biologico disponibili sul mercato nazionale e relativi fornitori.

La vera innovazione in tutto ciò sta probabilmente nel pretendere e sostenere il “miglioramento genetico partecipativo”, con la collaborazione di agricoltori, tecnici e ricercatori, per selezionare varietà che rispondano alle esigenze degli operatori, adatte ai diversi contesti pedo-climatici e ai diversi sistemi colturali.

Insomma questa potrebbe essere una soluzione, se non alternativa, integrativa al problema della crescente riduzione dello spazio a disposizione sulla Terra cui corrisponde anche quello della restrizione dello spazio per l’agricoltura da cui siamo partiti.


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